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"Meno Instagram, più pasticceria", il pastrychef Fabrizio Fiorani ci racconta la sua idea di pasticceria

foto di: Immagini di repertorio

Nuovo giudice del premio DolceRoma, il pastrychef Fabrizio Fiorani ha scelto di raccontarsi in questa suggestiva intervista…

Raccontaci di te, come nasce la tua passione per la pasticceria? Ha origine in famiglia?

«No, effettivamente no. Ho cominciato a fare il pasticcere (questa è la definizione migliore fra tutte quelle che mi vengono attribuite) perché ho avuto la grande fortuna di lavorare solo in super ristoranti: Il Pellicano (2 Stelle Michelin), La Posta Vecchia (1 Stella Michelin), La pergola di Heinz Beck (tre Stelle Michelin) e, per un breve periodo, l’Enoteca Pinchiorri (sempre, tre Stelle Michelin). Poi, mi sono spostato in Giappone sempre con Heinz. Abbiamo aperto due ristoranti e sono rimasto lì per cinque anni. Ho passato quattro anni abbondanti da Bulgari, occupandomi del ristorante e di tutta la parte creativa, relativa alla lavorazione del cioccolato. La ciliegina sulla torta è arrivata col premio The World’s 50 Best, come Miglior pasticcere d’Asia. Infine, sono tornato in Italia. Al momento, collaboro in Sicilia, al Duomo con Ciccio Sultano, sono stato premiato recentemente dal Gambero Rosso come miglior pasticcere, e ho la fortuna di potermi permettere di fare tante altre cose: disegnare stampi per la pasticceria, collaborare con aziende, scrivere libri»

Potremmo dire pasticceria a 360 gradi?

«Direi più a 365 gradi, come dicono quelli bravi»

Tu sei di Roma, vero?

«Abbastanza»

Ti è mai capitato di creare qualcosa per la tua città?

«Si, nel primo libro, Tra l’onirico e il reale, ho inserito il Roman Ciock: ripieno al cioccolato, disco di biscotto e nella parte davanti il Colosseo»

Qual è il tuo ingrediente preferito e perché?

«Il cioccolato, perché è perfetto da essere utilizzato puro o in tanti altri modi. Si può prendere e mangiare così o si può inserire in tutte le preparazioni di pasticceria. Penso ai lievitati, ai biscotti, alle mousse o alle praline: può essere usato in tantissime forme»

I contatti che hai avuto con altre cucine, penso al Giappone, hanno sicuramente ampliato la tua rubrica di ingredienti, hai mai pensato di creare connubi particolari?

«Onestamente no. Cerco sempre di seguire la mia linea, la mia idea di pasticceria. Quella che, sostanzialmente, racchiudo in tre paroline: “pasticceria – italiana – contemporanea. Per questo, l’abbinamento troppo particolare o diverso non mi entusiasma, perché non si abbina, e non si addice, alla parola “italiana“. Quindi: faccio il pasticcere, sono italiano e sono contemporaneo, nel senso che siamo nel 2021 e sarebbe da sciocchi non essere attenti a grassi, zuccheri o questioni di questo tipo»

Quindi non ti è mai capitato neanche di rivisitare qualche dolce in chiave fusion?

«Su richiesta, ma non chiamandolo “italiano“. Ad esempio, il Tiramisù col matcha non lo faccio, mi sembra un’assurdità»

Lo fai perché ti piace rispettare il gusto italiano?

«Lo faccio perché rispetto quello che mi piace, che sia italiano o di altra nazionalità, giapponese, francese o altro. In più, ovviamente, sono italiano ed è fondamentale che ci sia una collocazione geografica in quello che faccio»

Sappiamo che fai parte della giuria del premio DolceRoma, cosa ti aspetti e cosa consiglieresti ai partecipanti?

«Di essere loro i primi giudici. È inutile far assaggiare ad una giuria un prodotto che, di partenza, se uno è onesto con se stesso, sa che non è perfetto. In un concorso, vince chi fa il prodotto migliore ed è fondamentale che i concorrenti facciano, da sé, una prima scrematura. È inutile tentare, non si tenta in un concorso, si porta con sé il meglio»

A chi invece si avvicina ora al mondo della pasticceria, cosa consiglieresti?

«Di guardare meno Instagram e guardare un pò di più la pasticceria, quindi lo zucchero, il cioccolato e la farina»

Perché citi Instagram?

«Perché con i social abbiamo tanti vantaggi, ma anche tanti problemi. Tutti utilizziamo il social – attenzione – ma un conto è farlo dopo 15-20 anni d’esperienza, con una certa testa; un conto è farlo dopo pochissima esperienza. Tanti pseudo professionisti non riescono a riconoscere lo zucchero dalla farina! Noi facciamo roba che si mangia, non che si guarda e basta. Una foto è giustamente artefatta, specialmente sui social. È chiaro che siamo noi a scegliere cosa far vedere e, quando facciamo vedere qualcosa, la mostriamo stando attenti a determinati canoni di bellezza. Gli errori non si mostrano; l’imperfezione è molto rara: tutto sembra fantastico e bello. Nessuno ha la pancia, ad esempio, e nessuno ha la cellulite, ma questa è una cosa irreale. Ora, tutto questo può essere traslato al mondo della pasticceria sui social. Motivo per cui: meno Instagram, più pasticceria»

Quanto conta in ciò che fai la passione e quanto la tecnica?

«La passione ha un grande peso, ma solo con la passione non diventi un professionista. A casa, cucini con passione. Nel mio ultimo libro Perfetto ma non troppo, il “non troppo” implica esattamente questo: cucinare a casa per qualcuno ti induce a non essere totalmente perfetto, perché al posto della perfezione subentra l’amore e la passione che hai nei confronti della persona che assaggerà la tua preparazione. Questo, non ti obbliga alla perfezione, ma non ti rende neanche un professionista»

Quando si parla di pasticceria, si parla sempre di forma d’arte e creazioni artistiche, come se fossero dei comun denominatori. Credi che fare dolci abbia una qualche valenza artistica? A cosa ti ispiri in genere per le tue creazioni?

«Hai usato due parole molto relative che, nel mio lessico rientrano solo con qualche specificazione. La questione del creare, almeno facendo riferimento alla cultura cattolica cristiana, è sempre attribuita a qualcuno che sta più in alto di noi, e io la lascerei lì. Noi siamo pasticceri, facciamo cose da mangiare. La questione dell’arte e dell’artista, invece, è qualcosa che proprio mi entusiasma poco. Prima di tutto, noi siamo artigiani, ci dobbiamo mettere le mani. Chi dice altro è un pò come chi impara bene una canzoncina che, però, non ha scritto lui. Il primo obiettivo è sempre il gusto, l’ispirazione parte sempre da lì, da quel “devo fare qualcosa di buono“. Il 20 % arriva da qualche parte, non so ancora dire da dove, forse dall’intuizione, forse da altro. Ma il resto è lavoro. Per questo, la questione artistica non mi piace. La Pietà di Michelangelo viene sempre vista come un’intuizione e un miracolo, arrivato chissà come fra le mani del Buonarroti. Ma dietro c’è un lavoro di scarto, di errore e di studio pazzesco. Le persone tendono a ricordare sempre la sua ultima martellata e quel  “perché non parli?“; vedono sempre la punta dell’iceberg, senza rendersi conto che, dietro tutto ciò che vedono, c’è un enorme lavoro. Allora, la questione artistica è importante, ma quella dell’artigiano è fondamentale, perché facciamo dolci. La roba dell’artista, poi, viene amplificata, anche perché crea appeal sul pubblico, a me non interessa. Effettivamente, quando si parla di pasticceria, di bello buono e replicabile, si parla di arte e di artisti. Tuttavia, quello è un secondo passaggio, il primo è dato dalle fondamenta – fondamenta importanti – di pasticceria»

Quanto contano, oggi, le tue esperienze precedenti?

«Contano molto. Nella cucina di Pinchiorri ho imparato a capire quando si può parlare e quando invece si deve stare zitti: è una cosa importantissima, per chi fa questo mestiere. A La Pergola, le basi della pasticceria»

Qual è l’ingrediente segreto in cucina?

«L’ingrediente segreto è la cultura. Il gusto non è una cosa materiale, per raggiungerlo ci vuole intelligenza»

Cosa ti ha spinto alla pasticceria? Cosa significa per te essere un pasticcere?

«Essere un pasticcere significa fare i dolci e alla pasticceria mi ha spinto, indubbiamente, il piacere del mangiare bene»

Come hai vissuto il lockdown e la pandemia?

«La pandemia è stata sicuramente un grande problema, facendo il consulente mi sposto molto. Come tutti, quindi, i primi mesi sono stato fermo. Tuttavia, sono stato fermo sui libri, perciò è stato uno stop solo di gambe, non di testa. Io credo che la pandemia abbia avuto anche una nota positiva. Sarò controcorrente, ma questo periodo sta eliminando i ciarlatani. Quelli che non hanno basi e sono saltati in aria. In questo mondo, la competizione è all’ordine del giorno e, forse, è giusto così. Il cliente paga soldi per una consulenza, per un’idea o per altro, e deve avere il meglio. Ovviamente, mi dispiace per le persone che non fanno questo lavoro in termini di consulenza – mi riferisco ai ristoratori, ai catering, alle pasticcerie ecc…- perché loro quest’anno ne hanno davvero risentito»

Un dolce a cui sei particolarmente legato?

«Avrò fatto una decina di versioni di Tiramisù, nonostante gli ingredienti iconici restino sempre gli stessi, caffè e mascarpone»

E invece quello che più ti piace mangiare?

«Sempre il Tiramisù. Faccio solo quello che mi piace: non ho né bisogno di chiedere a qualcuno, perché la mia libertà è tutto; né  bisogno di accontentare qualcuno. È un po’ come la questione degli Atelier d’alta moda: lo stilista fa quello che gli piace, non quello che il mercato gli chiede»

Posto di Roma a cui sei affezionato?

«L’osteria Da Pietro, in centro. È un posto dove ogni tanto mi vado a rifugiare, per magiare i dolci fatti dalla suocera del titolare. È una pasticceria semplice e di gusto: straordinaria»

Zona di Roma preferita?

«Mi piace il centro per determinate cose, tipo l’osteria; poi, mi piace passeggiare a Villa Pamphilj, ma mi piace anche tutta la parte intorno al Vaticano»

Quando eri fuori t’è mancata Roma?

«Mi sono mancate tante cose, non solo Roma»

C’è una frase che ti piace molto o ti ripeti spesso?

«Equivale all’idea che c’è dietro la pasticceria italiana contemporanea, e si riassume in una frase di Oscar Wilde: “Non c’è niente di più importante del superfluo”. Credo sia una frase fondamentale, perché il dolce non si mangia per fame, ma per voglia. Il passaggio sta proprio lì: noi pasticceri non dobbiamo toccare la pancia, lo stomaco, ma il cuore, l’anima, qualche altra cosa che non è fame, è guilty pleasure: non sazia, dà soddisfazione»