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Muore Maradona, il mondo piange El Pibe de Oro


Diego Armando Maradona è stato il calcio, il calcio vero. Ma questo 2020 non da’ tregua e ieri pomeriggio, a 60 anni, lui, un altro grande della storia, se n’è andato

El Pibe de Oro

Chissà se esiste il paradiso; chissà se qualcuno, là, più in alto di noi, ha costruito un mondo simile al nostro; e chissà se, infine, in quel mondo, ha messo una palla, un campo e una porta: perché se l’ha fatto, oggi il più grande di tutti andrà a giocare a pallone. Non bastava la pandemia, non bastava Proietti, adesso pure Armando, la mano de dios ci ha lasciato, a soli 60 anni. Quello stesso Armando Maradona che, ai quarti di finale dei mondiali di Città del Mexico, nel 1986, con soli undici tocchi di pallone, percorse tutto il campo segnando il goal del secolo, s’è lasciato smarcare e segnare dal nemico più forte: la morte. E si sa, quando il cuore si ferma, non basta saper correre veloci. Diego Armando Maradona è stato un’icona, una di quelle che nascono ogni cent’anni. È stato il calcio, in ogni suo dettaglio, anche il più scandaloso e dissoluto. Dicono che quando un bambino tocchi una palla ricominci la storia del calcio, ma oggi la storia del calcio se n’è andata con lui e ognuno di noi lo sa. Perché l’epico numero 10 del Napoli, con gli scarpini, su l’erba sintetica ballava, parlava e recitava la vita, facendo del calcio uno spettacolo continuo, senza pause, senza minimalismi: tutto o niente.

Genio e sregolatezza, Diego Armando Maradona

Eppure la sua vita non era certo iniziata col piede giusto e chi l’avrebbe mai detto che il dio del calcio si nascondeva fra i sobborghi più disgraziati del quartiere di Villa Fiorito, nella periferia di Buenos Aires? Genio assoluto, estro e fantasia, racchiusi in poco più di un metro e sessanta, Diego aveva trascorso l’infanzia fra la polvere e la miseria di quegli spazi, trovando nel pallone il suo pane quotidiano e, nei campetti disastrati, la sua fortuna. Ed era lì, d’altra parte, che el Pibe de Oro, come amavano chiamarlo i suoi compagni, aveva imparato a destreggiare il pallone, fra macchine e passanti; era lì che diede forma, per la prima volta, alla sua magia, insieme alla sua compagna preferita, la palla. Ed è da quella sua capacità ineguagliabile di gestire la palla, da quel suo controllo impeccabile, che, probabilmente, Armando aveva capito che, almeno per lui, il pallone non era affatto rotondo, neanche nella vita. Perciò le innumerevoli vicende personali; la fragilità; la sregolatezza; la sopraffazione degli errori e le compagnie sbagliate. “La dimostrazione dell’esistenza di Dio”, come l’avevano definito molti, la leggenda del calcio, non aveva mezze misure: tanto nello sport, quanto nella sua esistenza al di là dei riflettori.


(Fonte: Grande Napoli)

Due piedi e un cuore

Così, come il suo predecessore Pelè, neanche Diego Armando Maradona passò in sordina e a soli 16 anni il pubblico già lo acclamava, durante le partite della nazionale Argentina. Poi il volo in Europa, il Barcelona e il Napoli. Ed è proprio qui, in Italia, nella città fra il Vesuvio e il mare, che Maradona cominciò a dipingere, doppio passo dopo l’altro, la sua indescrivibile carriera. Sarà che fra gli opposti, come l’acqua e il fuoco, il giocatore più forte al mondo sapeva riconoscersi: tanto potente nell’ardore di quei 90 minuti e tanto debole, forse irrimediabilmente solo, al di là di quelli. Sarà che quella città, rumorosa e caotica come i quartieri in cui era cresciuto, l’aveva accolto come lui aveva accolto il pallone, e viceversa: una famiglia, un’enorme casa in cui sentirsi pienamente se stesso. O sarà che quei colori, il bianco e l’azzurro, erano stati suoi da sempre: argentino di nascita, napoletano d’adozione, col calore del sole nei piedi.

Per questo, oggi tutti noi piangiamo un po’: per la consapevolezza di averlo avuto, per la fortuna di averlo visto far l’amore col pallone e per la tristezza di poterlo, ormai, soltanto ricordare.