Turisti nella Capitale: il cuore dei gattari
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Ci stiamo lasciando alle spalle il Campidoglio. La strada fatta finora ci ha posto davanti a numerose scelte. I chilometri hanno metaforicamente consumato la suola delle nostre scarpe e i nasoni ci hanno salvati dall’arsura. Adesso, proseguendo in questo immaginario viaggio per la Capitale, siamo di nuovo pronti a indossare i panni del turista. Questo non vuol dire che sto immaginando voi lettori col calzettone alto e i sandali, vi farei di certo arrestare. Prendo abbastanza seriamente la questione dei fantasmini si o no, questo divario generazionale mi stranisce e mi ricorda che sono sulla soglia dei trent’anni. In ogni caso, mai calzettone bianco con i sandali.
Nel nostro strano e arzigogolato via vai, siamo finalmente arrivati in un uno dei punti di Roma che più mi affascina da sempre. Il suo bianco illumina la vista, la sua maestosità riempie lo sguardo. Quando dico che Piazza Venezia è uno dei miei luoghi preferiti di questa città, per via del nostro passato storico, la gente pensa male. Io, in realtà, ne riconosco la maestosità artistica e la bellezza nello stile e nella realizzazione.
La canzone che risuona nelle mie orecchie, in questo istante, mentre immagino il mio sguardo vagare sull’Altare della Patria è forse banale. Forse non c’entra neanche più di tanto, ma sono legata a questo luogo esattamente come lo sono a questa canzone. Il perché è fin troppo personale e vorrei evitare di trasformare questa tappa nel diario segreto che non ho mai avuto. In ogni caso, la voce di Leo Gassman è prepotente mentre “mi faccio prendere bene” dalla vista di uno dei miei luoghi preferiti.
Siamo arrivati in questo luogo costeggiando il suo fianco. Di solito ci sia arriva percorrendo Via del Corso e, quindi, lo si fa tenendo ben a mente cosa si prospetta ai nostri occhi. Da lì, il bianco diventa la linea di un orizzonte fittizio. Da qui, con una prospettiva decisamente diversa, vi sono altri colori e altri aspetti da poter cogliere. La scalinata è alla nostra destra, così come lo è quel fuoco sempre acceso a cui fanno la guardia giorno e notte. O forse lo fanno solo il giorno, non ricordo di aver visto una forza armata successivamente alla chiusura dei cancelli, confesso però che potrei sbagliarmi.
Percorrere quei gradini è stancante, sfinente, ma sarà il raggiungimento della meta a togliervi il fiato. Piano dopo piano, sarà sempre più chiaro ciò che vi si prospetterà davanti. Ho fatto quella scalinata troppe poche volte, per mio giudizio personale, ma provo a tenere salda la mia sanità mentale non costringendomi a compiere questa sadica mossa ogni qual volta essa si presenti come un pensiero intrusivo nella mia testa. Mi basta il ricordo della dolorosa e pressante vista su Roma. Da lì su, più che in altri posti, sentirete che tutto è possibile. Da lì su, guarderete le statue ai vostri piedi e vi renderete conto di quanto piccoli siamo in realtà, ma di quanto l’impossibile possa diventare concreto.
Non lo so, sarà il patriottismo che mi scorre nelle vene – mai vero – eppure questo monumento mi ha da sempre aiutato con la sua bellezza. Si, dovrei smetterla qui e non continuare a sproloquiare “cuore a cuore” con voi che vi siete sottoposti alla masochistica lettura di questo articolo.
Dovremmo proseguire e percorrere i Fori Imperiali, specie perché sto immaginando il sole tramontare mentre romanticamente ci avviciniamo ai semafori che ci separano dal Colosseo.
Per chi vive in questa città, ciò che sto per dire non sarà di certo sconvolgente: non ho mai visto i Fori o l’Anfiteatro Flavio senza transenne. Che esse fossero strutturali, quindi necessarie per poter mantenere questo o quell’altro pezzo in piedi; o che fossero quelle per i benedetti lavori della Metro C, tutto è sempre stato costeggiato da ferro e bulloni. Pioli e pilastri che cercando di rimediare all’innaturale passaggio della modernità e della nostra contemporaneità. La storia che si piega all’esigenze di ogni giorno provando a collegare le vie più periferiche a quelle del centro.
Paradossale come, in fin dei conti, tutto resti sconnesso e scollegato. Eppure ci si continua a provare e provare. Siamo testardi e resilienti nella nostra visione antropocentrica della vita, non credete?
Ho sentito fare una marea di battute, ne ho fatte io stessa, sul fatto che i romani usino il Colosseo come una specie di rotonda. La cosa divertente è che ultimamente, incrementando gli spostamenti in auto, questa cosa è capitata anche a me.
Secondo voi, quanto senso possa avere fare una storia su un social, quasi ogni giorno, cambiando solo la canzone che fa da sfondo?
Penso ben poca. In ogni caso, è quasi una tradizione. Sembra quasi un reminder per ogni nostro amico non presente nella capitale. Forse un invito a cantare a squarcia gola in auto con noi, mentre la lancetta della benzina si abbassa e i fori della sua facciata non diventano altro che un ricordo.
Se, all’inizio di questa nostra odierna tappa ho parlato del sentirci piccoli e insignificanti davanti alla bellezza dei tetti di Roma. Adesso, provo a farvi sciogliere il cuore. Avevo una coinquilina, qualche tempo fa, che non aspettava altro che il suo principe azzurro le proponesse di fare una passeggiata al chiaro di luna. Magari percorre Via Cavour per poi svoltare verso l’Anfiteatro. L’uscita della metro offre un bellissima terrazza soggetta a tutte le numerose foto a cui ha fatto da panchina.
Lei sperava di ricevere un bacio all’ombra del monumento, magari anche immortalando quel sentimento su una pellicola digitale. Cristallizzare il tutto, conservare l’istante. Essere salvati da una vita tra divano e serie tv. Non a tutti, però, basta una vita normale e non ho idea se alla fine sia riuscita o meno ad ottenere quel bacio. Ripercorrendo le mie stesse parole. Oggi cerco di farvi sentire piccoli. Perché se non fosse stato abbastanza la vista dall’Altare della Patria, adesso vi invito a guardare le stelle. Fidatevi, si vedono… Non capisco ancora come sia possibile nonostante tutto l’inquinamento luminoso. Il Colosseo avrà delle leggi fisiche che lo rendono distaccato dal nostro spazio-tempo.
Dicevo che voglio farvi sentire piccoli, perchè è questo che un colosso in fondo fa. Quelle pietre sono impilate li da anni, Russell Crowe ci ha mostrato a cosa servivano (e adesso è pronto a farlo di nuovo). Tra l’altro, non importa da che punto voi lo guardiate, se avete visto il “Gladiatore” vi sfido a non sentire la voce di Luca Ward nelle vostre teste: “Sono Massimo Decimo Meridio…”.
Sono elementi che vi ridimensionano, no? L’eternità rispetto alla brevità della nostra singola esistenza.
Lui resta, immutabile a meno che qualcun altro non decida di graffiarlo con la punta di una chiave o di prenderne qualche pezzo per farlo diventare altro. Immutato, nonostante il ferro che lo circonda. Grondante di urla, di sangue, di storia. Lui un monolite che ci ricorda cosa è stato e cosa potremmo essere: un popolo che dell’intrattenimento ha fatto il proprio scudo.
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