«Mi chiamo Alessandro, sono romano e ho 41 anni. Sono padre di tre figli, fra i quali Noa, la prima. È da lei e dalla sua nascita, che, nel 2013, prende forma il brand Noa A. Devo ammettere che l’ambito non è nuovo, per me: vengo da una famiglia di commercianti di calzature, che fanno questo da 53 anni. Da bambino, uscivo da scuola e raggiungevo mio padre al negozio, per intenderci. Tuttavia, la creazione di Noa A. l’ho vissuta come un azzardo: da un lato, volevo capire se, al di fuori della mia eredità familiare e del negozio Angelo, a Fontana di Trevi, potessi anch’io mettermi a fare scarpe di qualità, per la mia clientela; dall’altro, volevo provare a costruire io, a mia volta, qualcosa per la mia famiglia, quindi per i miei figli, così come era stato fatto con me. Ovviamente il lavoro di mio padre e di mia madre resta, per me, la prima fonte d’ispirazione. Loro mi hanno insegnato tutto»
Possiamo dire, quindi, che la passione per le scarpe era di casa?
«Questo sicuramente, ma Noa A. è stata la mia sfida. Oggi, è un marchio che distribuiamo, al di là del negozio, in tutto Lazio, sia fisicamente, sia grazie al sito e la pagina Instagram Noa_a.shoes»
«Sarò onesto: la pandemia l’abbiamo sentita, ma ci siamo trovati benissimo. Questo perché abbiamo deciso di restare vicini al cliente e alle sue esigenze. Non solo abbiamo cercato di lavorare a 360 gradi, anche con l’utilizzo del digitale, ma siamo riusciti ad offrire la nostra qualità, e il massimo del nostro servizio, con modalità di pagamento agevolate. Ascoltare le richieste e le possibilità degli acquirenti è la prima regola. Sicuramente, poi, investire e collaborare sui social è stato un punto di forza ma, anche qui, posso dire si sia trattato di un azzardo. Il digitale è una strada difficile, perché investi a occhi chiusi senza sapere se poi effettivamente funzionerà»
«Solo calzature made in Italy, so’ bono solo a fa’ quello – ride -. Seguiamo la via della qualità e del prodotto italiano, anche a costi di produzione maggiori. Ciò che alla fine offriamo è un prodotto che, è vero, ha un costo diverso, ma ha anche una durata e una manifattura diversa. Pensa che noi partiamo dal vecchio “fatto a mano“. Il primo prototipo si taglia a mano e ci sono figure come il preformista, il tagliatore di pelli, l’acconciatore. Insomma, la scarpa entra in un percorso che può conoscere solo chi lo vive»
De Gregori scriveva: “E con le stesse scarpe camminare, per diverse strade, o con diverse scarpe su una strada sola“, che risponderesti?
«Che se riesci a camminare con le stesse scarpe a lungo, significa che sono buone e comode, come le nostre!»
C’è un aneddoto, legato a Noa A., di cui vai orgoglioso, che vuoi raccontarci?
«Un giorno una signora ha comprato un paio di scarpe di Noa A., simili alla concorrenza. Qualche tempo dopo è tornata dicendo: “posso farti i complimenti? Sono le uniche scarpe che riesco ad indossare fino a sera, senza avere problemi!“. Questo mi ha riempito di soddisfazione, perché è esattamente quello che mi aspetto. Fino a pochi anni fa pensavo di più al guadagno e mettevo in tasca le critiche, oggi preferisco guadagnare meno, ma avere più elogi. Quando il mio lavoro viene riconosciuto è per me fonte di tantissima soddisfazione»
Per i modelli, a cosa ti ispiri?
«Ho il mio modellista Patrizio, mia moglie Mikol che mi dà una mano e la nostra fabbrica, addetta alla produzione. Siamo un team, ognuno può dare la sua opinione, anche se la scelta finale spetta a me e al mio socio. Ti posso garantire che, anche se da fuori non si vede, fare questo lavoro è fare ‘na vitaccia: significa alzarsi alle 4 del mattino e tornare a casa la sera. Ma io ne vado fiero»
Perché le scarpe? Cosa rappresenta per te la scarpa?
«La scarpa rappresenta la persona stessa, chi è, dove va e da dove viene: è la prima cosa che vedo. La scarpa dice molto, se non tutto, di chi la indossa. Pensa a quante cose si captano, solo nel vedere come viene portata, o a quante cose può dirci, la suola di una scarpa, sulla personalità di chi ci cammina. Strusciare i piedi, camminare sulle punte o sui talloni equivale a dire qualcosa di sé»
Visto che mi parli di personalità, tu a che modello di scarpa ti assoceresti?
«Mi sento un pò come Dottor Jekyll e Mister Hyde: di giorno scarpa da motociclista e di sera scarpa classica»
Quanto conta la passione e lo studio che c’è dietro Noa A.?
«La passione conta sicuramente molto, ma conoscere i tecnicismi e i materiali è tutto. C’è un’assoluta ricerca dietro e devo ringraziare mio padre, perché lui mi ha insegnato ad amare questo lavoro, che è pure una dipendenza per me. Immagina che dal 35 al 41, su ogni struttura escono 10 modelli. Ogni campionario sono quasi 800 pezzi. È Difficile, ma appassionante: devi stare lì, studiarla in tutti i minimi particolari…»
Vuoi dire qualcosa a chi vuole intraprendere la tua strada e creare qualcosa da zero?
«Per farlo ho bisogno di raccontare le mia esperienza. Vicino ho sempre avuto tantissima concorrenza e sono anche stato molto criticato: molte persone mi vedevano come un favorito, avendo già l’azienda di famiglia. La verità è che ho sempre creduto in quello che facevo e sono sempre andato dritto per la mi strada col coltello fra i denti. Il segreto è questo: crederci fino alla fine e non mollare mai un secondo. Soprattutto, stare dietro ai bravi, ai forti, a quelli che nella vita hanno dimostrato di saper fare, con tanti sacrifici, passi da giganti. Ecco: prendere esempio dai migliori. Se in un cesto di mele marce metti una mela buona, perisce insieme alle altre. Se, invece, la metti insieme alle buone, ce la fa. Il punto è saper rubare con gli occhi, prendere spunto, in silenzio e con umiltà, da chi è stato migliore di noi: solo così, si impara»
Cosa ti aspetti dal futuro?
«Che tutto il mondo possa conoscere Noa A., non per gli introiti, di quelli non mi importa, ma per soddisfazione personale. Dietro tutto questo ci sono tanti sforzi e sacrifici e io quelli vorrei veder gratificati. Quando ti arriva la scarpa finita fra le mani, dopo che l’hai pensata e progettata, è come avere in braccio un’altra figlia. Per questo, la mia ambizione è la mia soddisfazione personale e quella del cliente. In altre parole, quella che mi spinge a chiedermi sempre “come va il prodotto? piace?”»
Hai qualche progetto specifico in previsione?
«Non ci sono progetti specifici. Posso dire che stanno prendendo forma i prototipi invernaliNoa A. del prossimo anno e sono bellissimi. Certo, un giorno mi piacerebbe collaborare con aziende importanti. Sarebbe un modo di veder riconosciuto, ancor di più, il mio lavoro»
Fuori Roma in quale altra città vedresti Noa A.?
«Un sogno nel cassetto è Milano, che è la città della moda per eccellenza, secondo me. Roma, purtroppo, la stanno sminuendo. Una volta la capitale era soprattutto il centro storico, le sue vie più belle. Oggi aprono continuamente centri commerciali e questo mette a repentaglio la sopravvivenza delle piccole botteghe storiche. Che fine fa il romano? Che fine fa il piccolo commerciante?»
Un luogo romano che ti rappresenta?
«Indubbiamente, Fontana di Trevi: non ci sono cresciuto, ci sono nato»
C’è un modo di dire romano che ti piace particolarmente?
«Mio padre mi diceva sempre: “in tempi de crisi, i bravi tirano fori le…forze”»
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