“Tra Sacro e Profano” la pittura di Ulisse Scintu a Palazzo Ruspoli
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L’idea dei Centri Commerciali è vecchia di duemila anni. Nell’antica Roma ve ne erano parecchi e si chiamavano “macelli”, parola che si ritiene derivata dal greco màgheiroi (cuochi) e che solo dal I sec. d.C. verrà utilizzata per indicare i mattatoi.
Un macellum importante fu edificato sull’Esquilino nel 40 a.C. da Augusto e intitolato a sua moglie Livia; un altro, tanto ampio da essere chiamato Macellum Magno, venne fatto costruire da Nerone sul Celio e vantava una copertura a cupola di poco inferiore a quella del Pantheon. Il macellum più antico si trovava a nord del Foro, fu distrutto da un incendio nel 270 a.C., venne ricostruito un secolo più tardi dal console Quinto Fulvio Nobiliore e nel I secolo a.C. fu smantellato per far posto al Foro di Augusto. Al suo interno trovava spazio anche il Forum Cupedinis (dal latino cupēdĭum = leccornia) ovvero il mercato delle delizie, delle rarità gastronomiche, dei vini più ricercati e costosi.
Va però sfatata la credenza, raccontata anche da improvvisate guide turistiche, secondo la quale i Mercati Traianei – l’imponente edificio a semicerchio che si trova alla fine dei Fori Imperiali quasi di fronte alla Colonna Traiana – siano stati per l’Antica Roma una specie di “centro commerciale”. Questa grande costruzione fu progettata nel II sec. d.C. da Apollodoro di Damasco, come opera di contenimento della grande scarpata creatasi con la demolizione di una fetta di Quirinale per fare spazio al Foro di Traiano. L’opera si sviluppa su più livelli ed è caratterizzata da due fabbricati molto ampi: la Grande Aula, che era adibita alle cerimonie ufficiali e il cosiddetto Corpo Centrale (che oggi ospita il Museo dei Fori Imperiali) in cui aveva sede il procurator imperiale incaricato dell’amministrazione e alla gestione del Foro; altre due aule più piccole si trovano ai lati dell’emiciclo.
Nei “secoli bui” del Medioevo l’intero complesso fu oggetto di saccheggi e spoliazioni per recuperare materiali da costruzione. La Grande Aula fu incorporata in un convento, venne edificata la Torre delle Milizie e nuove opere difensive, alcuni spazi furono trasformati in chiese, altri in ospizi, molti in abitazioni, stalle e cantine. Nel corso dei lavori intrapresi nel ventennio fascista per la realizzazione della Via dei Fori Imperiali, tutta l’area traianea fu oggetto di grandi scavi archeologici ma anche di imponenti operazioni, spesso fantasiose, di restauro e integrazione delle strutture romane.
Fu così che la storia e la scienza archeologica furono piegate all’ideologia di una Nuova Roma Imperiale per definire l’individualità politica del fascismo, l’organizzazione, lo stile di vita e gli obiettivi della sua azione. Demolendo secoli di storia medievale si riportarono alla luce le vestigia della Roma antica per inserirle in un nuovo spazio pubblico “inventato” (la Via dei Fori), creando una scenografia sfarzosa e autocelebrativa capace di distorcere le evidenze e deformare l’oggettività storica. Per dolo, colpa o piaggeria, le menti eccelse del regime non riuscirono ad accettare che quel grande complesso di pareti, spazi, arcate, scale, corridoi, stanze e strade fosse un vero e proprio sistema urbanistico, una cittadella strutturata come un grande centro direzionale fatto di uffici, servizi amministrativi, logistici, sociali e culturali. Per il fascismo qualsiasi monumento che non esaltasse le conquiste dei Cesari o la grandezza dell’Imperatore poteva essere solo popolaresco o dozzinale. E siccome lì non c’era nulla di tutto ciò, decisero che l’enorme costruzione voluta da Traiano fosse destinata ai mercati. Nessuno si è chiesto come fosse possibile movimentare quantità enormi di merci attraverso locali situati a diversi livelli e collegati da scale spesso molto strette? E come mai le migliaia di carri che avrebbero dovuto percorrere la strada esterna (chiamata Via Biberatica) non hanno lasciato quelle profonde incisioni sul lastricato che troviamo a Ostia, a Pompei e su tutte le antiche strade romane giunte fino a noi?
A proposito della Via Biberatica, questa era nota fin dall’antichità come “Via Piperatica”, forse perché qui erano gli uffici daziari delle spezie diretti ai vicini horrea piperiana o magazzini del pepe. Ai lati di questa strada si notano ancora numerosi vani poco profondi che i latini chiamavano tabernae, termine che noi associamo a “osteria” ma che deriva da tàbulae, le tavole di legno con cui anticamente si costruivano le abitazioni. Gli archeologi non seppero resistere alla tentazione di tradurre tabernae (alloggi) con “taverne”, cioè osterie, bettole. Così, che nei libri di storia e nelle guide, quella che era una nobile “Via della Spezie” è stata convertita in una strada di taverne e bevute.
Sergio Grasso
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