Vincenzo Schettini arriva al Brancaccio con “La fisica che ci piace – La lezione show”
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C’è stato un tempo in cui la discoteca nasceva, rumorosa erede del signor night e della signora balera. Insieme a tante sorelle belle e brutte, grandi e piccole, proiettò le luci della palla con gli specchietti in mezzo mondo durante gli anni settanta. Di tutta la nidiata, la figlia più scapestrata e famosa si chiamava Studio54. Malata di febbre del sabato sera, della quale probabilmente fu il paziente zero, spirò dopo una breve vita scandalosa a New York, spalancando le porte della leggenda.
La prima generazione di discoteche inventó letteralmente una serie di professioni, così si impose quella del disc jockey (dj), un tipo solitario che costava poco e occupava molto meno spazio di un gruppo di musicisti. Se ne stava arroccato dietro a due giradischi ed un mixer, armato di cuffie, vinili e passione per un’arte che poteva finalmente maneggiare a orecchio, senza aver studiato lo spartito.
Nei night il DJ era poco più di un cameriere: serviva musica nella penombra, spesso su richiesta. Riceveva mance dai turisti in cerca di una colonna sonora ispiratrice fra gin tonic e champagne. Con l’avvento della nuova tendenza, in corrispondenza con il finire dei Settanta, giusto digerito John Travolta, il Dj iniziò ad ambire al ruolo di direttore d’orchestra su vinile e divenne famoso, in alcuni casi, soprattutto su scala regionale.
Roma, settembre 1980, interno notte. Scappo da Capri, sfuggo ad una terribile discoteca improvvisata pochi minuti dopo aver ricevuto una telefonata sconvolgente dal mio padrino Claudio Casalini, boss emergente fra i nuovi spacciatori di microsolchi, quelli d’importazione che profumano di cellophane, i più ambiti dai dj che stanno traghettando il prodotto dai grandi uffici delle multinazionali del long playing verso i covi del disco mix (Best Record, Goody Music, Città2000, alcuni fra i marchi colpevoli). Claudio – trentenne a sua volta dj ma della primissima generazione – mi lascia sbigottito con la cornetta in mano, annunciando che il mega locale che da Roma fa eco a New York sarebbe disposto ad ingaggiarmi per la nuova stagione.
Cuore in gola! Io, quasi ventun’anni, fresco ex campione di nuoto dal tipico capello biondo cloro, al comando della musica del Much More!? Non ci crederò finché non varcherò il portone di ferro nero di via Luciani 52. Io, quasi sconosciuto al cospetto di quelli che l’avevano inaugurato pochi mesi prima, fra i più audaci animali notturni.
Avevo debuttato felicemente un anno prima all’Alibi, a Testaccio , passando pochi mesi a far ballare il pubblico più affettuoso e competente che si possa avere in pista, ma per il resto il mio curriculum era davvero scarno, a parte la dote di parlare e mettere musica rock e disco nei pomeriggi di una radio privata, tale Radio Dimensione Suono 103.1, con sede in un pied-à-terre della Balduina e diffusione nell’etere limitata a Roma e poco più.
Non ci ero mai stato durante i primi mesi di apertura, intimidito, ma ne parlavano tutti e come tutti sognavo di vederlo. Cavolo, il Much More! La mega discoteca che aveva soffiato al Piper il primato di più glamour nella città eterna: capienza ufficiosa oltre 1000 persone, effetti speciali e luci all’avanguardia, schermo cinematografico e palco per i concerti, pressione sonora entusiasmante, fama e pubblico internazionale, 5 serate e 2 pomeriggi a settimana sempre piena di gente colorita.
Eccomi ai Parioli con la mia Fiesta 1.1 Ghia. Nessuno dei capi ad accogliermi. Loro sono della vecchia guardia, quelli che devono ancora capire la differenza di peso fra un cocktail ben shakerato e due dischi ben mixati. A confortare il biondino timido dal fisico atletico ed il naso ingombrante, avanzano due personaggi che svolgono ruoli fondamentali nel nuovo corso delle disco, quelli che accompagnano e sottolineano il ritmo del dj con le luci e gli effetti del laser: si tratta del pacioso Ennio e dell’effervescente Corrado. Mentre aspetto il mio turno di prove seduto sulle scalinate della galleria di quello che restava del cinema Roxy, mi mostrano le magnificenze del locale che è già loro. La filosofia del Much More è cinematografica, non solo per la presenza del grande schermo, ma un po’ in tutti i dettagli scenografici e tecnici. Non a caso collabora gente proveniente dagli studios di Cinecittà.
Tensione. Il direttore artistico per quanto ne so deve ancora approvare ufficialmente la mia candidatura ad erede di Peter Micioni (passato al Piper) e Al Jordan. Tremavo all’idea di incontrare quel personaggio mitologico, metà rotocalco e metà diva, che aveva lanciato tante stelle del cinema italiano: l’eccentrico Enrico Lucherini.
Arriva il mio turno, scendo titubante attraverso la scaletta stile piscina che permette l’unico, striminzito accesso al terrazzino che ospita il mixer ed i tre giradischi Technics 1510 sul lato sinistro e tutti i mille tasti delle luci sul destro. Apro la valigia dei vinili e abbozzo i primi mixaggi scegliendo fra i pezzi del momento. Luci accese a giorno, nessun pubblico pagante. Gli addetti ai lavori proseguono affaccendati con i preparativi dell’imminente inaugurazione ma ascoltano, fintamente distratti, e annuiscono. Prendo coraggio e azzardo una novità: era appena uscito il nuovo album di Diana Ross , una grande voce del soul che stavolta virava sulla disco. C’era un pezzo sul quale scommettevo. Lo metto su, tutto orgoglioso.
«OK! Abbassa, basta così, l’impianto suona bene… – strilla il press agent delle dive, facendosi vibrare nervosamente gli occhiali sul naso – però niente reggae qui al Much More!»
Reggae?! Il pezzo cui si riferiva era “Upside down”. Di lì a un paio di settimane il prodotto di Bernard Edwards e Neil Rodgers (quelli della Chic insomma…) sarebbe stato il numero uno di tutte le discoteche del mondo. Anche del Much More, sulla cui consolle da quella sera rimasi per quattro anni. Ma questa è una storia lunga. Ci torneremo su, se i numi della dance ci saranno propizi.
Faber Cucchetti
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