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A Roma pure le statue parlano e se te devono di’ qualcosa nun ce girano pe’ gnente intorno, te ’a dicono e basta! E nun solo Pasquino c’aveva la parola facile!
Che i romani non abbiano peli sulla lingua e paura di dire le cose in faccia – e pure con una certa verve – è risaputo ormai da ognuno, per questo, anticamente sparpagliate per la città, le statue parlanti di Roma sono forse la rappresentazione meglio riuscita di quella inclinazione all’ironia sottile, di taglio tipicamente romano. D’altra parte, la satira, sin dai tempi di Orazio, nutriva i romani di quella sua tipica irriverenza, utile contro i poteri e le loro futili ostentazioni.
Ma cosa sono esattamente le statue parlanti? E come venivano usate? Ma, soprattutto, chi è ’sto Pasquino e cosa sono le pasquinate?
In origine sei, le statue parlanti furono il tradizionale modo d’espressione con cui i romani, attraverso messaggi, critiche e componimenti satirici, comunicavano il loro disaccordo ai governanti. La tradizione nacque in epoca pontificia, intorno al XVI secolo, quando il popolo, spinto dal malumore verso i propri rappresentanti, cominciò ad appendere al collo di alcune statue, in giro per la città, fogliettini anonimi dal contenuto satirico, con l’intento di sfidare e farsi beffe di quei personaggi pubblici corrotti e malvisti. Ieri come oggi, il compito di portavoce è ancora portato avanti soltanto dalla più celebre di queste, quella che porta il nome di Pasquino. Le altre sono comunque ancora visibili: Marforio nel cortile del Museo Capitolino, Madama Lucrezia a Piazza di S. Marco, l’ Abate Luigi a Piazza Vidoni, il Facchino in via Lata, il Babuino a Via del Babuino.
Situato vicino Palazzo Braschi, il busto di Pasquino senza braccia, senza gambe e pure senza volto, statua di epoca ellenistica, venne rinvenuto intorno ai primi anni del ‘500 durante degli scavi, all’interno di quella che, oggi, è piazza Pasquino (prima piazza del Parione) e pare fosse in origine un decoro dell’antico Stadio di Domiziano, l’attuale Piazza Navona . Fra le ipotesi sull’origine del particolare nome ne spicca, ormai alimentata dall’immaginario popolare, su tutte una: Pasquino era il nome di un artigiano, dalle battute taglienti e la satira arguta che, proprio nel rione del Parione, aveva la sua bottega. Per questo motivo, probabilmente dalla morte dell’uomo, la gente continuò a portare avanti quella acuta sfrontatezza dando avvio a quell’usanza che, ancora oggi, Pasquino assolve sapientemente.
Tuttora definiti pasquinate, i messaggi sfacciati, appesi sulle statue ogni notte e ogni giorno rimossi dalle guardie, erano rivolti anticamente soprattutto ai papi. Invano, molti rappresentanti del papato, cercarono di far rimuovere la statua di Pasquino, dissuasi anche dai consiglieri, che conoscendo le aspre reazioni del popolo, volevano evitare una simile censura.
Per questo motivo, se inizialmente incaricarono i gendarmi di sorvegliare le statue, compresa quella di Pasquino – per altro senza riscontro, viste le quotidiane affissioni – alla fine i papi dovettero cedere e anzi, intuendo le potenzialità di quel particolare modo di comunicare col popolo, cominciarono ad utilizzare quello stesso metodo a loro favore, a fini propagandistici contro gli avversari.
E se, la storia delle pasquinate, in conflitto col potere papale, andò avanti per secoli, Pasquino conobbe però anche un lungo periodo di silenzio, dall’anno dell’annessione di Roma nel Regno d’Italia, fino circa gli anni ’30 del ‘900 quando, in occasione della visita di Hitler a Roma, contro la pomposità degli allestimenti, si fece portavoce dell’improvvisa scritta: “Povera Roma mia de travertino te sei vestita tutta de cartone pe’ fatte rimira’ da ‘n imbianchino venuto da padrone!”.
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