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La monnezza a Roma non è certo un problema d’oggi, anzi, vi stupirà sapere che esiste da un po’: ce l’avete presenti le targhe, in giro per la città, contro i monnezzari?
«[…] Eppuro me toccò a bbuttà un lustrino
pe ffamme stenne drent’ar momoriale
le raggione da disse ar tribbunale
de le Strade, indov’è cquell’assassino.
Je sce discevo: «Monziggnore mio,
quanno Lei trova er reo, voi gastigatelo:
ma er monnezzaro nun ce l’ho ffatt’io»
(Er monnezzaro provìbbito, Giuseppe G. Belli)
Così scriveva il celebre poeta romanesco Giacomo G. Belli, nella prima metà dell’800, facendosi testimone di un reale fatto giudiziario e, contemporaneamente, di un problema che, a quanto pare, affligge da sempre la Capitale: la “monnezza”. All’interno dei versi, si racconta infatti di un pover’uomo punito ingiustamente dal “Tribbunale de le Strade- come lo definisce lui – perché sospettato di aver buttato qualcosa in giro, insomma di esser stato un “monnezzaro”.
Quando si tratta di grandi città, ormai è risaputo, una delle questioni più difficili da risolvere riguarda proprio lo smaltimento dei rifiuti e, da eterna grande città, certo Roma non ne è mai rimasta esclusa. Per chi pensi si tratti però di una questione attuale, dobbiamo sottolineare che, come ci ricorda il Belli, questo della spazzatura è un grattacapo antico – ahinoi!
Molti di voi ricorderanno sicuramente il monte di “rifiuti” più famoso di Roma, il Monte Testaccio, tuttavia la monnezza di cui stiamo parlando ora non ha dato vita, negli anni, ad un reperto archeologico a cielo aperto, piuttosto è stata la protagonista di vicende talmente numerose da rendere necessarie delle punizioni. Stiamo parlando di quando, intorno al ‘700, cominciarono ad apparire, incastonate negli angoli di alcuni palazzi di Roma, svariate targhe contro i “monnezzari”, atte a punire chi faceva di quei luoghi un mondezzaro. Si trattava di veri e propri cartelli di divieto in marmo recanti delle iscrizioni che proibivano a chiunque di depositare, proprio su quelle strade, l’immondizia. Chi non rispettava la scritta veniva punito in vari modi: tramite una sorta di attuale “multa” da pagare o con pene corporali – spesso “tratti di corda”, frustate. L’autorità competente era solitamente il Presidente delle strade che, in quanto impiegato dello stato della Chiesa, poteva avvalersi dell’appellativo di Monsignore e farsi garante della pulizia delle vie di Roma, coadiuvato da scopatori, carrettieri e un corpo di guardie.
Particolarmente interessante era la lingua utilizzata nello scrivere sia gli editti, sia le targhe: essendo i trasgressori appartenenti al popolo, non si poteva certo utilizzare il latino perché, sebbene lingua ufficiale della chiesa, i suoi termini erano pressoché sconosciuti alla maggior parte del volgo; si preferiva quindi adoperare l’italiano e qualche volta addirittura il romanesco. In questo modo, tutti potevano comprendere il contenuto di quei divieti e, di conseguenza, rispettare la legge. Di solito, il pagamento previsto, per chi malauguratamente decideva di infrangere la regola, andava – all’incirca – dai 10 ai 25 scudi (moneta pontificia dell’epoca).
Oggi Roma può contare la presenza di circa 67 targhe superstiti – “editti di sasso” come le chiama il Belli – tutte riportanti sia il divieto sia la data d’affissione e spalmate in giro per la città. Una decina, più specifiche, sono poi situate proprio in prossimità di palazzi, chiese e fontane.
Insomma, questo a riprova che, non solo i rifiuti sono una rogna secolare per Roma – che a noi solo la parte bella nun ce piace! ma che noi romani, viste le condizioni attuali di certe zone della città, non siamo poi tanto cambiati! Che la tradizione sia importante non si può mettere in dubbio, però certo di questa tradizione potremmo pure farne a meno, no?
Più che artro, co’ tante bellezze che c’avemo, de cui anna’ fieri, a che ce serve facce nota’ come incivili e sporca’ sta bella casa?
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