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Roma è piena di storie leggendarie epiche, a volte dei falsi che si sono creati nel corso dei secoli e che oggi riteniamo inconfutabilmente veri, come quello del pollice verso degli imperatori nei confronti dei gladiatori o quello della celebre frase pronunciata da questi guerrieri, Ave Caesar, morituri te salutant! Ecco dunque i cinque falsi miti intorno queste figure leggendarie della Roma antica!
Già a quei tempi, quando la parità dei generi non era nemmeno minimamente ipotizzata, nel campo gladiatorio esistevano combattenti uomini e combattenti donne. Numerosi ritrovamenti archeologici, ma anche documenti scritti da storici come Tacito o poeti come Giovenale e Petronio, descrivono senza dubbi la discesa nelle arene di mulieres ad ferrum ovvero donne armate. Nella lotta gladiatoria queste donne potevano prendere le parti di regine guerriere come Budicca, raccontata da Petronio oppure combattere contro i nani, come aveva voluto l’imperatore Nerone o infine combattere tra di loro, come per la prima volta accadde ad Ostia antica, grazie a un certo Ostiliano. Per quanto rari e insoliti dunque, i combattimenti in cui apparivano donne all’interno dell’arena non erano impossibili!
Fin da bambini ci hanno insegnato o raccontato che una volta terminato il combattimento tra gladiatori, l’imperatore aveva il potere di lasciarli invita o di dare loro la morte, attraverso il famoso gesto del pollice; se rivolto verso l’alto il combattente avrebbe avuto salva la vita, al contrario, se rivolto verso il basso, veniva ucciso. In realtà non accadeva proprio questo, anzi, il pollice rivolto verso l’alto o lasciato a metà stava a indicare proprio la messa a morte del gladiatore. L’equivoco probabilmente è nato a causa del nostro gesto per dire “ok”! Inoltre, mandare a morte un gladiatore era un evento assai raro che si verificava solamente nel caso in cui questo avesse combattuto slealmente; ma anche in questo caso difficilmente si ricorreva al gesto estremo e inoltre a mandarlo a morte non era l’imperatore ma un’altra figura…
Il potere di vita e di morte sul gladiatore infatti era riservato alla figura dell’editor ovvero colui che finanziava la manifestazione, che ce metteva li sordi, pe’ capisse. I gladiatori infatti erano di sua proprietà, ogni combattente per lui era un grande investimento in termini di denaro e anche se la legge romana prevedeva un risarcimento nel caso di morte del gladiatore, perderne uno in combattimento, significava avere una grande perdita economica. Così solo in casi di combattimenti sleali o altre motivazioni magari legate alla fama in declino del combattente, questi guerrieri venivano mandati a morte e il segnale era verbale: se l’editor gridava Iugula, “sgozzalo” allora doveva essere ucciso, se invece gridava Mitte, “lascialo”, doveva essere lasciato andare.
Altro luogo comune che ha preso piede nelle storie dei gladiatori era che i combattenti entrando nell’arena salutassero l’imperatore con la frase Ave Caesar, morituri te salutant! Questa frase probabilmente non è stata mai pronunciata da nessun gladiatore entrato in un’arena romana. L’equivoco di questa storia è nato da un racconto di Svetonio, in cui si riportano queste parole pronunciate da alcuni condannati a morte nei confronti dell’imperatore Claudio in occasione di una finta battaglia navale nelle celebrazioni della bonifica del Lago del Fucino. Da qui si è creduto che probabilmente ogni combattimento era preceduto da questa frase, ma in realtà i gladiatori non erano né condannati a morte, né schiavi.
E infatti, come abbiamo potuto capire tra le righe dei paragrafi precedenti e come avevamo già accennato in un altro articolo in cui abbiamo esplorato la figura del gladiatore, questi combattenti non erano affatto né schiavi, né avanzi di prigione, né condannati a morte. Chi diveniva gladiatore lo faceva per scelta, perché sapeva che quella vita gli avrebbe potuto dare gloria e fama in tutta Roma e non solo, in tutto l’impero. In ogni modo la loro vita era legata indissolubilmente al lanista ovvero il proprietario della palestra in cui il gladiatore passava la sua vita ad allenarsi per combattere.
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