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Non c’è trippa per gatti: cosa significa questo modo di dire romano? E chi era il carnacciaro?
(Fonte: I gatti di Roma)
“Non c’è niente da fare. Comunque vadano le cose, non c’è trippa per gatti“. Quante volte avete sentito dire questa frase? E quante volte vi siete chiesti quale sia il suo significato? Quando proprio si arriva al punto in cui nulla possa risolvere più qualcosa, oppure non c’è da aspettarsi alcun tipo di cambiamento, e persino gli sforzi sono vani, i romani usano questo curioso modo di dire. L’origine di questo motto pare risalga già ai primi anni del ‘900.
(Fonte: Ilmamilio.it)
Come sapete Roma è una città, ancora oggi, piena di gatti. Molto celebri sono, ad esempio, quelli di Largo di Torre Argentina. Ecco, il sindaco di quegli anni pare che non volesse più sfamarli, sebbene questi animali fossero utili a cacciare via i topi. A pronunciare la frase sarebbe stato, quindi, Ernesto Nathan, l’allora primo cittadino della capitale che, stanco del numero piuttosto alto di felini nella capitale, era diventato poco incline a nutrirli. La tradizione popolare ha poi fatto il resto, facendo delle parole del sindaco un simpatico modo di dire.
Secondo alcuni racconti folcloristici, a cavallo degli anni tra il 1907 e il 1913, il neoeletto sindaco Ernesto Nathan fu contatto da un funzionario per adempiere al controllo del consueto bilancio del comune di Roma. Scorrendo la lista delle voci, Nathan notò che, ad un certo punto, si parlava di “frattaglie per i gatti“. Uno dei compiti del municipio era, infatti, sfamare le colonie feline della città. In particolare, quelle adibite alla protezione dell’archivio e dei documenti della capitale, spesso alla mercé dei topi che ne infestavano il palazzo.
(Fonte: L’Indro)
Al contrario di Anna Magnani, nota attrice romana innamorata dei mici, che addirittura lasciava il set e le riprese, per portargli qualcosa da mangiare, però, il sindaco s’infuriò. Non erano soldi ben spesi, secondo lui: questa storia doveva finire. In questo contesto pronunciò allora la frase: “E se non ci saranno più topi, vorrà dire che i gatti non serviranno più“, che si tradusse con “non c’è trippa per gatti“. Roma non avrebbe più comprato cibo per i suoi amici a quattro zampe e la voce sarebbe sparita dai calcoli di bilancio.
Si trattava, tuttavia, di un compito importante, non di un passatempo: nutrire i gatti aveva addirittura la sua figura di riferimento. Stiamo parlando del carnacciaro. A lui era affidato il sostentamento dei mici della città. Ogni giorno l’addetto a questo mestiere vendeva e distribuiva la carnaccia, ovvero gli scarti, e le interiora poco pregiate, delle macellerie, per cani e gatti. A differenza di molti lavori ambulanti, dei carretti che vendevano frutta e verdura, ad esempio, o di quelli addetti ai beni di prima necessità, il carnacciaro non se ne andava in giro strillando per Roma.
(Fonte: flickr)
Al contrario, gli bastava un fischio per richiamare i gattini randagi, che subito accorrevano per lasciarsi sfamare. Col passare degli anni, infine, la figura si svuotò di significato e venne sostituita dal termine “gattara“, declinato al femminile. Nell’immaginario, una donna che va in giro, munita di avanzi o interiora, avvolti in pezzi di carta, per portarli alle colonie di felini in giro per la città.
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