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Da almeno venti secoli moltitudini di romani escono di casa all’alba per disporre sui banchi dei mercati trionfi di frutta e verdura, fragranze di pani, splendori di pesci e carni, incanti di salumi e formaggi. E da almeno venti secoli i Romani – ieri in tunica e peplo, oggi in giacca o in jeans – passano in mezzo ai banchi, guardano, toccano, annusano, comprano i loro oggetti di desiderio gastronomico.
Si sono succeduti gli uomini. Al posto del banco in marmo del macellaio Proculus c’è il furgone frigorifero di Gianfilippo; gli editti imperiali su prezzi, pesi e igiene delle carni sono stati rimpiazzati dai manuali HACCP. Sono cambiati anche i luoghi, tra il Tevere e il Campidoglio, dov’erano i mercati o fori venali (Boario, Olitorio, Piscario, Pistorium, Vinario…), al posto delle grida in latino dei venditori risuonano le asettiche cantilene delle guide turistiche, i risolini dei giapponesi, i commenti in spagnolo e gli stupori in inglese. Al Foro di Nerva fioriscono rimasugli di cibo-spazzatura: buste accartocciate di orride patate fritte, astucci di polistirolo unti di hamburger e lattine di bevande già esplose.
Dei malfamati vicoli della Suburra, dove Messalina vestita da prostituta sgattaiolava tra bettole e bordelli e dove Giulio Cesare giocava da bambino tra bancarelle e carretti di merce di infimo ordine, resta poco più che il nome su una targa o su una scialba uscita della Metro. Era la città bassa (sub urbem), separata dai Fori da un alto muro e frequentata da tagliaborse e criminali, fatta di case in legno, bottegucce, locande di infimo ordine e lupanari. Oggi tra via dei Serpenti, via del Boschetto o via di Panisperna si passeggia tra gallerie d’arte, botteghe artigiane, ristoranti e negozi di specialità alimentari di tutto il mondo.
Gli antichi luoghi del gusto forse sono stati dimenticati dagli uomini e inselvatichiti dal tempo, ma le derrate, i vini e i prodotti della Terra che giungevano nell’Urbe 2000 anni fa, non hanno mai smesso di saziare – giorno dopo giorno con inflessibile magnanimità – il grande ventre di Roma. Salsicce, salami e prosciutti dagli Ernici o dalla Tuscia, maiali arrostiti dai Castelli, alici salate o marinate dal litorale di Anzio, formaggi e ricotte dall’Agro Pontino, dal Frusinate e dal Reatino, carciofi da Cerveteri, pani da Genzano, Lariano e Salisano, olio dalla Sabina e della Tuscia, funghi e castagne dai boschi Albani e dai Cimini… Un caleidoscopio di identità in cui i Romani sanno riconoscere le tracce della qualità né più né meno come sapevano fare i loro antenati a Campo de’ Fiori e al Testaccio: guardando, raffrontando, annusando e – se appena possibile – assaggiando con spirito critico e curiosità.
E poi in cucina, dove le massaie romane, quelle vere, hanno fatto e fanno da secoli tesoro di quegli ingredienti dai quali sanno istintivamente trarre stagionali riassunti di piacere e natura. Dopo i fasti dissennati di Trimalcione o di Apicio – di cui è rimasto ben poco, graziaddìo – il medioevo ha imposto quella sua splendida economia del disponibile che ha fatto evolvere la civiltà gastronomica romana fuori da ogni complicazione o “stupore”, insistendo sul buonsenso e l’oculatezza, investendo per secoli in quei fortunati bricolage che oggi chiamiamo tradizione. Una tradizione nata grazie alle frequenti contaminazioni con la pastorizia abruzzese e la ruralità toscana, arricchitasi dell’apporto dei veneti nella pianura Pontina, dei pastori sardi nell’Agro Romano, dei pescatori campani sul litorale. Su tutto brilla poi la stella gastronomica a sei punte della cucina Ebraico-romanesca a cui fa timidamente eco l’innesto gastronomico operato dalle innovazioni che i Cardinali hanno importato per secoli dalle loro aree di provenienza. Ecco, all’ora di pranzo e di cena, i romani sanno rappresentare una sorta di ecumenismo gastronomico che si snoda attraverso i secoli tra periodi di abbondanza e di fame, di pace e di guerre, di abbandoni e rinascite. Guardando bene anche nel più semplice dei piatti si mescolano fette di storia, morsi di civiltà e bocconi di fede, insieme ai prodotti di una terra generosa più di ogni altra, patrimoni inalienabili trasformati in “cultura che nutre” dal mestiere di tante mani e dal valore di tanta memoria.
Sergio Grasso
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