Vinaietto: tradizione e qualità nel cuore di Roma
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L’oro è giallo, al massimo bianco, ma nell’antica Roma era pure verde! Cos’era l’oro verde di cui parlavano i romani? E da dove proveniva?
Sapete che a Roma esistevano i negotiatores oleari? Riuniti in collegi di importatori, erano i soli commercianti abilitati a disporre dell’oro verde in specifiche contrattazioni, all’interno dell’arca olearia, una vera e propria borsa specializzata. Avete capito di cosa stiamo parlando? All’apogeo della civiltà romana l’olivicoltura era una delle branche più sviluppate dell’agricoltura, ne consegue che l’olio d’oliva era uno dei prodotti più pregiati di Roma. Nulla di questa particolare materia prima veniva lasciato al caso, dalle varietà più adatte alla potatura, ai sistemi di raccolta, fino alle tecniche di frangitura: ogni cosa era descritta alla perfezione. Plinio e Columella, per citare solo alcune fonti, censirono – addirittura – dieci varietà diverse di olivi, classificandone l’olio in cinque categorie. D’altra parte, sulle tavole romane, dai banchetti più succulenti della nobiltà a quelli più scarni del popolo, l’oliva non mancava mai! Ora vi chiederete: ma l’olivo in città? Ovviamente Roma non era urbanizzata come oggi, tuttavia tra gli spazi preferiti di coltivazione, ce n’era uno in particolare, fuori la città eterna: sapete dove si trovava?
Marco Porcio Catone, soprannominato “il Censore” di Roma intorno al II sec. a.C recitava: «l’ulivo nasce plebeo e diventa nobile in Sabina», nel suo De agri cultura. Si trattava della prima opera in prosa della storia della letteratura latina, l’unica pervenutaci interamente e, suo indiscusso protagonista, era l’olio d’oliva sabino: questo era l’oro verde di Roma. I romani, d’altra parte, lo sapevano: teatro del celebre Ratto delle Sabine, solo quel luogo, poco distante dalla Capitale, era fornito del terreno ideale alla produzione del tipico condimento. Lo stesso Marco Terenzio Varrone, nel suo De re rustica, proponeva una serie di consigli, per la coltivazione dell’olivo, redimendo – di fatto – un primo disciplinare di produzione sull’olio, relativo al territorio sabino. E non finisce qui, perché Strabone, geografo e filosofo greco trapiantato a Roma, già in tempi non sospetti, si era accorto della ricchezza di quell’area, scrivendo che «tutto il suolo della Sabina» era «straordinariamente ricco di olivi». Insomma, con una storia così lunga e importante, l’olio d’oliva prodotto in Sabina era un vero vanto per gli antichi romani, se come diceva Marziale le olive erano l’inizio, ma pure la fine del pasto!
Non a caso, al Museum of fine arts di Boston si può osservare, ancor oggi conservata, una fiaschetta del VII secolo a.C.! Recante un’iscrizione sabina di epoca pre-romana, la fiasca, testimonianza della cultura olivicola della zona, conteneva, per l’appunto, tracce di olio! Area prediletta, per la coltivazione e la spremitura delle olive, la Sabina rappresentò per i romani uno dei maggiori bacini d’importazione di olio. Ma perché veniva chiamato oro verde? Come dicevano molti scrittori romani, l’olio di qualità era molto costoso. Plinio, ad esempio, raccontava che il cavolo non era un piatto economico, perché doveva essere condito con olio; Virgilio, dal canto suo, suggerendo una ricetta di agliata, consigliava l’uso di tanto aglio, tanto aceto, ma solo «poche gocce di olio». In altre parole, l’olivo era considerato una pianta sacra! Vi basti pensare che, in una civiltà basata su una rigida struttura militare e il reclutamento obbligatorio, i cittadini che piantavano almeno un iugero (circa 2.500 metri quadri) di ulivi venivano dispensati dalla leva! Insomma, se è vero che “non tutto ciò che luccica è oro”, olive e olio nell’antica Roma ne furono sicuramente una dimostrazione! Così, se mai vi capiterà di passare da quelle parti sappiate che, “dellà dar fiume” Tevere, confine fra la provincia di Roma e quella di Rieti, spalmato sulle colline, esiste un campo dei miracoli dall’oro verde!
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