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I mulini sul Tevere non avrebbero avuto nulla da invidiare ai nemici giganti di Don Chisciotte! Certo non conviene combattere contro di essi, come insegna il racconto, ma si può combattere contro il tempo ripescando, nel flusso dei ricordi antichi di Roma, proprio la loro storia! E tu sapevi esistessero dei mulini sulle sponde del Tevere?
Se avessero continuato ad esistere i mulini sul Tevere, la gente avrebbe smesso di andare in Olanda: avremmo avuto a casa nostra un altro pezzo di mondo! Tuttavia, la presenza di questi giganti scomparì intorno alla seconda metà del ‘800, dopo svariati secoli di attività, a causa delle conseguenti inondazioni del Tevere. Dalle tracce rinvenute, successive al loro smantellamento, i mulini romani sembravano relativamente numerosi. Il più famoso era la mola del Fiorentini, nei pressi di Via Giulia. D’altra parte, l’antico granaio presente sull’Isola Tiberina, doveva presupporre la presenza di molini sul Tevere, formati da grandi pietre. Il loro utilizzo, infatti, era necessario alla macinazione del grano, a sua volta utile per l’impasto del pane. Il processo, possibile grazie allo sfruttamento delle correnti d’acqua, era soggetto alla forza fluviale del Tevere. Specie nei punti più impetuosi, questi straordinari meccanismi azionavano la ruota dentata, che metteva in moto la mole da macina, in grado di trasformare i chicchi dorati del grano in farina.
Fin dal II secolo d.C. alcuni mulini, detti Gianicolensi, erano presenti lungo il dorsale del colle del Gianicolo, che da San Pietro scende ripido verso il Tevere. Secondo la storia, essi erano azionati dal confluire dell’acqua, che l’imperatore Traiano aveva derivato dalla zona dei monti Sabatini. Tuttavia, durante un assedio della città, i Goti ordinarono il taglio degli acquedotti, per impedire l’arrivo dell’acqua potabile in città e la mancanza d’acqua ne decretò il fermo. La riattivazione dei mulini Gianicolensi avvenne, in una nuova posizione, solamente nel XVII secolo, quando papa Paolo V Borghese costruì l’acquedotto che porta il suo nome (acqua Paola), convogliando l’acqua dal vicino lago di Bracciano. Da quella loro forzata inattività, tuttavia, derivò l’indispensabile, e successiva, costruzione della mole del Tevere, sotto l’imperatore Giustiniano. Vennero infatti costruiti veri e propri mulini galleggianti, a cui più tardi furono aggiunti, spostandoli, gli antichi Gianicolensi (ad sulla valle di Ponte Sisto). Le mole galleggianti erano formate di una coppia di barche, ancorate alle sponde, con una ruota nel mezzo che, azionata dalla corrente, metteva in moto le macine, interne alle stesse imbarcazioni.
I mulini furono parte del paesaggio teverino per più di 1300 anni, fino alla vigilia dei lavori di arginatura del fiume e le più antiche tracce furono ritrovate sul ramo sinistro del fiume, sebbene meno sfruttato di quello destro, per via del ridotto deflusso acquifero. Alcuni resti, recuperati presso i piloni del Ponte Neroniano, vicino Castel Sant’Angelo, permisero addirittura di ricostruirne un modellino in scala. Vi stupirà sapere che Ponte Cestio deve uno dei suoi nomi, “Ponte Ferrato“, proprio alle tante catene, di ormeggio dei molini, che lo circondavano.
Intorno all’800, lungo le sponde del Tevere si potevano contare ben 11 mulini, di due tipologie: i tradizionali galleggianti e i cosiddetti “terragni“, cioè collocati su terra ferma. Quest’ultimi erano manufatti in muratura, di dimensioni maggiori rispetto a quelli su acqua, potendo così fungere da fienili, depositi o stalle. L’ultima mola terrigna, di cui si ha notizia, era collocata e censita ai civici 43 e 44 di via delle mole di S. Bartolomeo, una delle strade, adiacenti il Tevere, che proprio dalla presenza dei mulini prendevano il nome, come via della Mola di S. Francesco nell’Isola Tiberina e via della Mola dei Fiorentini. Molto nota, in alcuni scritti, la «mola di S. Andrea al Portone delli Hebrei», in quanto situata in corrispondenza di una delle 5 porte che chiudevano il Ghetto ebraico, costituito a metà ‘500 con Bolla Papale.
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