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Quante volte hai sentito questo modo di dire, Ao ecco è arivato er mejo fico der bigonzo, soprattutto in maniera canzonatoria riferendosi a qualche amico, oggi vi sveliamo quattro poesie di Giggi Zanazzo, romano de Roma che presenta e descrive proprio i quattro fichi der bigonzo.
Giggi Zanazzo è un poeta romanesco, vissuto a cavallo tra fine Ottocento e inizi Novecento, che al pari del Belli e di Trilussa scriveva poesie in romanesco. I suoi libri e le sue poesie sono piene di tradizioni e usi della Roma popolare di quel tempo, alcuni che sopravvivono ancora, altri purtroppo andati in disuso. I Quattro fichi der bigonzo è il titolo dato proprio da Zanazzo a quattro sue poesie dove si descrivono quattro tipi romani che abitavano in rioni storici differenti di Roma: Borgo, Trastevere, Regola, Monti.
So’ bborghiciano, so’: nun ero nato
Che bbazzicavo ggià ddrento Palazzo (1)
Mi’ padre me ce messe da regazzo
E, ggrazziaddio, c’ò ssempre lavorato.Pe’ ffatigà’, fratello, ho ffatigato;
da fanello ero sverto com’u’ razzo;
ma da un ber pezzo in qua nu’ mme strapazzo;
perché sso’ vvecchio e mm’hanno ggiubbilato.Bàzzico er Vaticano tutt’er giorno,
conosco er papa, so li fatti sui,
e ddé quelli magnoni che ccià intorno.Pe’ mme, ‘nsino che ddura è na cuccagna
Ma nun sia mai me se morisse lui,
o possino scannà’, come se magna?
(1) Vaticano
Io, frater caro, so’ ttresteverino;
e ttutto mé pôi dî ffôrché ppidocchio;
quanno facevo er carrettiere a vvino,
l’orloggio solo me costava ‘n occhio:marciva che pparevo un signorino!
Carzoni córti insinent’ar ginocchio,
ggiacchetta de velluto sopraffino,
fibbie d’argentoe scarpe co’ lo scrocchio:er fongo (1), a ppan de zucchero, infiorato;
un fascione de seta su la panza;
e ar collo un fazzoletto colorato:portavo tanti anelli d’oro ar deto
eccatene, che ssenza esaggeranza,
parevo la Madonna de Loreto.
(1) Cappello
Sò’ regolante; faccio er conciapelle,
e ssò’ dde discennenza vaccinaro.
Prima ‘st’aziènna cqua stava a le stelle:
chi era conciapelle era mionaro:bbuttava piastre come ccarammèlle
e cqueste nun so’ ffreégne, frater caro;
bbastava a u’ regolante a ddije avare,
pe’ ffasse mett’i’ mmano le bbudelle!Er gusto nostro, quann’avemo fame
È dda magnà la coda de vaccina
Cor sèllero a stufato in der tigame;ssémo sempre pronti a ll’occasione,
de sera, oppuramente de mmatina,
de pijasse ‘na toppa a ccommugnone.
Sò’ mmonticiano, sò’, ssangue de ddio!
Sò’ nnato pé’ li Monti e mme n’avanto;
e cquanno dico a uno: alò bber fio;
ha dda fa’ mmosca e ttela com’un santo.Sò’ mmarano,lo so; ma er pórso mio,
nun c’è gnisun massiccio dé cqui accanto,
(nun dico bbono), ma cche ssii da tanto,
de fammeje accusì (1), si nun voj’io.So llavorà’ dde sfrizzolo (2), fratello;
ma mmai còr carciofarzo (3): quanno méno
a cquarcuno, jé fò: ffòr’, er cotello!Me còce ppiù, a le vôrte, ‘na parola
Detta cor un tantino de veleno,
che ssi mme danno ‘na stoccata ‘n gola.
(1) Mentre si dice così, chi parla sovrappone il pollice della destra sull’indice rovesciato della sinistra, spingendo all’indietro. – (2) di stocco, un particolare tipo di spada. – (3) a tradimento.
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