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Pochi romani prestano attenzione a uno strano parallelepipedo di travertino quasi appoggiato all’esterno di Porta Maggiore. È un mausoleo di famiglia ma al tempo stesso l’unico monumento al mondo all’arte dei fornai, edificato per tramandare ai posteri la scalata sociale di un ex schiavo trasformato nel più ricco e importante panificatore di Roma negli anni tra la fine dell’età repubblicana e l’inizio dell’età augustea.
“I romani vissero per lungo tempo non di pane ma di farinate” ci informa Plinio il Vecchio. In effetti fino al III secolo a.C. la figura del fornaio/panettiere era quasi sconosciuta a Roma dove il ruolo del pane era svolto dalle pultes (farinate, polentine, pappette) e da semplici azime di orzo miglio o farro tostati e macinati. Di un pane vero e proprio, lievitato, commerciale e accessibile a tutte le fasce sociali, l’Urbe si appropria solo nell’ultimo periodo della Repubblica Romana, più o meno nel II secolo a.C. e ci lascia molte testimonianze letterarie, artistiche e archeologiche sul lavoro dei forni pubblici e delle panetterie, i pistores e le pistrine.
Sul frumento e sul pane si basava molto del consenso verso chi governava, al punto da far dire al poeta Giovenale che il popolo due sole cose ansiosamente desiderava: panem et circenses, il pane e i giochi nel circo. L’Annona era l’assessorato che gestiva le scorte di grano e ne determinava le distribuzioni gratuite (frumentationes) o a prezzi inferiori a quelli di mercato. Aveva sede nel Foro Boario (mercato degli animali) e se ne vedono i resti nella chiesa di Santa Maria in Cosmedin, più nota come Chiesa della Bocca della Verità.
(Foro boario – foto del 1890)
In quelle meravigliose e drammatiche istantanee di 2000 anni fa che rispondono al nome di Pompei ed Ercolano, durante il fuggi fuggi generale, al momento della tremenda eruzione, molti pani furono abbandonati nei forni, arrivando intatti fino a noi. Alcuni di questi erano addirittura “firmati” dal panettiere con un timbro.
(Pane di Ercolano con timbro del proprietario che recita: “Proprietà di Celer, schiavo di Quintus Granius Verus.”)
Per vedere l’unico monumento del mondo romano dedicato all’arte panificatoria antica bisogna uscire da Porta Maggiore, la più maestosa delle Mura Aureliane, eretta dall’imperatore Claudio nel 52 d.C. per consentire al suo nuovo acquedotto (l’Aqua Claudia, che passa proprio sopra la porta) di scavalcare le vie Praenestina e Labicana. Superati gli archi, immediatamente a sinistra si nota una curiosa costruzione in travertino chiaro ben lontana dai canoni stilistici dell’epoca.
Un’iscrizione ripetuta su tre lati ci informa che “questo sepolcro appartiene a Marco Virgilio Eurisace, fornaio, appaltatore, apparitore” e che in questa bizzarra tomba di famiglia riposavano sia le sue spoglie sia quelle di “Atitia che mi fu moglie e visse da donna eccellente; i resti del suo corpo, quanti ne rimangono, sono raccolti in questo paniere”. E proprio a forma di cesta per il pane era fatta l’urna di Atitia, ora probabilmente dimenticata nei depositi della sovraintendenza archeologica.
L’originalità del monumento appare evidente negli elementi architettonici che lo compongono. Le cavità circolari e ai piloni cilindrici rappresentano i due strumenti principali della professione di panettiere: gli stai per la farina e i lunghi contenitori in cui lievitava il pane. Sulla sommità del monumento (che probabilmente terminava con una copertura piramidale) Eurisace volle che venisse scolpito un lungo fregio rappresentate tutte le fasi del suo lavoro: dalla pesatura e molitura del grano fino alla vendita del pane, passando attraverso la preparazione dell’impasto, la pesatura e la cottura nel forno. Il tutto sotto la sorveglianza dello stesso Eurisace.
Ma chi era Eurisace? Come riuscì a farsi erigere una tomba così monumentale proprio a ridosso di una delle principali porte della città? Da quanto ne sappiamo era un ex schiavo, il cui nome tradisce un’origine greca come gran parte dei maestri in quest’arte che nella Roma del I secolo a.C. contava almeno 350 panettieri. Una volta affrancato dalla schiavitù e acquisito lo status di liberto, aveva intrapreso la professione di pistor. Abile, determinato e quasi certamente grazie all’appoggio di qualche personaggio influente – forse proprio il suo ex “padrone”, al quale un liberto restava comunque legato per tutta la vita – riuscì a ampliare l’attività del suo piccolo forno-bottega fino a farlo diventare una vera e propria impresa complessa e organizzata. Eurisace si definisce “appaltatore” ovvero produttore di pane per lo Stato e ostenta la sua qualifica di “apparitore”, ovvero delegato o procuratore probabilmente di qualche magistrato dell’annona: gran bella carriera per un ex schiavo.
Verrebbe da dire che 2000 anni fa Eurisace sia riuscito a realizzare quello che noi oggi definiamo “il sogno americano”. Gli mancava solo una cosa, fondamentale per sentirsi parte della Roma che contava: una storia di famiglia. E lui pensò di poterla iniziare e regalarla ai suoi discendenti con quel sepolcro, sulla cui porta d’accesso vegliavano le statue dei due coniugi, oggi restaurate ed esposte nella Sala Colonne della Centrale Montemartini di Via Ostiense.
Firma: Sergio Grasso
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