“Il Locale” Rinasce. Arriva “Studio 26”, il locale che fa da cuore pulsante alla musica di Roma
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C’era un tempo, nemmeno tanto lontano, in cui i contadini della campagna romana affiggevano una frasca di vite sopra l’ingresso di casa. Era quello, da secoli, il segnale che il vino novello era pronto e che forse assieme a una fojetta il passante avrebbe potuto trovare anche due coppiette, qualche uovo e un pezzo di cacio per ristorarsi. Robba di casa che il forestiero pagava volentieri con qualche spicciolo, consapevole che il padrone della vigna non si sarebbe mai accorto dell’ammanco di quel vino mentre il contadino poteva ricavare qualcosa in più dalla fatica e dal sudore della vendemmia.
Chissà perché dal momento in cui abbiamo provato l’ebbrezza del boom economico negli anni ’60, ci siamo scordati che dopo ogni boom c’è sempre un crack e abbiamo cominciato ad adattare il nostro stile di vita e i nostri ritmi alla mancanza del tempo e del tutto-e-subito. Anche a tavola, dove la condivisione del momento, del cibo e della parola potrebbe ancora renderci un po’ più civili e sociali. Invece sono spesso tramezzini bisunti al bar in piedi o yogurt e crackers davanti al computer. Non va meglio a chi consuma il proprio pasto solo a casa o a chi in pausa pranzo si fa compagnia con una panchina vuota. A questa logica perversa si ribella la fraschetta, vera e propria istituzione sociale già presente al tempo dei Cesari come luogo occasionale di mescita di vino per i contadini che dalle campagne romane andavano a vendere i propri prodotti nei mercati dell’Urbe. Il nome di queste improvvisate e quasi clandestine osterie (dal latino hospes, col doppio significato di chi ospita e chi è ospitato) diffuse soprattutto nella zona dei Castelli Romani, deriverebbe dal verbo latino fràngere riferito al ramo spezzato (la frasca, con su attaccate tutte le fojette…), fissato sopra la porta d’ingresso di una qualsiasi casa privata per indicare la disponibilità di vino e magari anche di un mazzo di carte. Vi è chi sostiene che la derivazione di “fraschetta” derivi dall’antico borgo di “Frascata”, l’attuale Frascati, i cui abitanti, fuggiti da Tusculum distrutta dai romani nel 1191 vivevano in capanne di frasche.
Giunte fino a noi, le poche fraschette non convertite in ristoranti finto-chic o neo-cafon, riescono ancora a farci riscoprire il piacere di gustare il cibo, di capirlo e di condividerlo. Non sono rifugi golosi ma luoghi senza tempo, dove i rapporti umani, fatti di ritmi e riti ancestrali, si fanno sostanza. Spazi in cui mostrare il piacere di ritrovarsi, assaporando un briciolo di intimità famigliare a casa degli altri. Le fraschette (quelle vere) nascono sprovviste di cucina e non servono cibo, ma vino e ospitalità. Uno o due tavoli comuni lunghi senza tovaglia, qualche panca e molte sedie sparse per la stanza. In un angolo il pane e una ciotola di uova sode, messi apposta per strozzare in gola e spingere a bere. Un fascio di coppiette piccanti e salate svolge la stessa funzione, facendosi forte dell’intensità del finocchietto per ottundere il palato, per infinocchiarlo e far sembrare buono anche il vino più imperfetto. Vino che un tempo era solo quello della casa e dell’ultima vendemmia, venduto senza il vincolo di uno standard chiamato bottiglia ma portato al tavolo in caraffe di dimensioni variabili: barzilai (doppi litri), tubbi (litri) e fojette (mezzi litri).
Chi è amico dell’oste (quello vero) ha diritto a un minimo di servizio con cui condire il proprio cibo e a un occhio di riguardo che lo fa sentire ancor più coccolato. All’ora di pranzo la fraschetta – quella di un tempo, oggi messa inopinatamente fuorilegge – allargava la propria offerta a una pila di piatti in cui ognuno poteva metter dentro ciò che si era portato da casa o che aveva comprato per via. Poche, pochissime ahimé le vere fraschette, anche quelle storiche dei Castelli, in gran parte stravolte dalla frenesia globalizzante, dal chiasso modaiolo del sabato sera, dalla bottiglia con etichetta blasonata e da una cucina fatta anche di precotti, forni a microonde e menù prestampati.
Ce n’è ancora qualcuna – robba per iniziati, segreta e semi clandestina – in cui si può ancora trovare umanità, ospitalità e vino schietto; dove ognuno può perfino portarsi il suo coccio di lumache in umido fatte in casa, le sue frittelle di borragine e quella formetta di pecorino che aspettava l’occasione più propizia per uscire dal suo frigorifero. Ne frequento con gioia una, forse l’ultima, dove posso ancora sentirmi orgoglioso delle mie personali e quotidiane scelte di campo; dove, se mi va, mi infilo il tovagliolo nel colletto, poggio i gomiti sul tavolo, uso lo stuzzicadenti, scambio il mio saltilbocca con il carciofo del vicino e faccio la scarpetta nel piatto. E mentre mi ciuccio godurioso pollice e indice mi accorgo che quel tempo che credevo mio si è convertito in nostro, proprietà collettiva per tre ore, scialuppa di salvataggio per lo spazio di un pranzo. Come una fojetta di vino dei Castelli appena spillato.
Sergio Grasso
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