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Nonostante i molti giochi che allietavano la loro esistenza, essere bambini nell’antica Roma non era facile, sin dai primissimi momenti di vita: infatti, si nasceva ufficialmente solo superando il rito del riconoscimento.
Quest’ultimo consisteva nell’esercizio più spietato del diritto di vita e morte sui figli di cui il pater familias disponeva: subito dopo la nascita, il neonato veniva posto per terra dalla levatrice, ai piedi del padre. Se questi lo sollevava, pronunciando parole rituali, il bambino entrava ufficialmente a far parte della famiglia; in caso contrario, la creaturina veniva esposta, ossia abbandonata presso discariche o vicoli. Questo era il terribile destino che attendeva i maschietti deformi o fragili, i figli illegittimi e le femmine – queste ultime venivano abbandonate con molta più frequenza, anche quando erano nate sane e figlie biologiche della coppia ufficiale. Già da queste consuetudini, che si modificarono molto poco nel corso dei secoli di storia romana, si evince quanto l’infanzia fosse considerata uno stadio imperfetto di umanità: d’altronde, nel più ampio quadro di bassa aspettativa di vita per le classi meno agiate e per l’esposizione a pestilenze, carestie e guerre, il tasso di mortalità infantile era talmente alto che anche il coinvolgimento emotivo nei confronti dei bambini doveva essere piuttosto ridimensionato dall’abitudine a interfacciarsi con condizioni ostili e disgrazie.
Per quelle bambine che avevano la fortuna di venire accolte come figlie legittime e cresciute in famiglie più o meno agiate la vita, almeno nei primissimi anni dell’infanzia, non era poi così dura. Addirittura, le ragazzine fino agli undici anni (dopodiché erano considerate in età da marito, e spesso contraevano matrimonio prima della pubertà senza completare gli studi) venivano educate da precettori privati a parlare e scrivere correttamente il latino e il greco, e potevano esercitarsi nel canto, nella danza e nell’esercizio di tutte quelle attività considerate virtuose e adeguate a una brava donna di casa, ad esempio la filatura della lana. Anche i giochi di maschietti e femminucce si somigliavano molto: entrambi i sessi si divertivano a inseguire cerchi di legno con due bacchette, a giocare a palla (è celebre il bassorilievo di Villa Romana del Casale, a Enna in Piazza Armerina, raffigurante un gruppo di fanciulle che, con indosso una sorta di antenato del bikini, giocano a passarsi una palla di cuoio) o a cercare di recuperare i gusci di noce o gli astragali (piccole ossa di ovini) lanciati in aria come dadi. Questi giochi, di cui esistevano tantissime varianti fantasiose (Ovidio ne descrive almeno sette diverse), erano talmente caratteristici dell’età spensierata da far nascere l’espressione: “lasciare le noci” per indicare la fine dell’infanzia.
C’era però un giocattolo che era esclusiva prerogativa delle bambine: la bambola. In età imperiale la bambola, detta “pupa” o nella sua versione diminutiva “pupilla” (bambolina) era un oggetto molto diffuso anche tra la plebe: lo testimoniano le numerose bambole (complete di corredo fatto di abiti, gioielli e accessori per la casa!) rinvenute nelle sepolture di giovani donne. Alle bambine si regalava una bambola, con la quale giocavano fino al giorno delle nozze e poi consacrata ai Lari della sua casa o alla divinità preferita dalla fanciulla per simboleggiare il passaggio alla vita adulta. Rudimentali bambole in pezza o creta esistevano già presso gli antichi Egizia, ma a Roma la produzione di bambole divenne una vera e propria arte. Spesso realizzate in argilla da artigiani specializzati detti figuli, cioè lavoratori in creta, poiché il materiale era facilmente reperibile, economico e molto, esistevano bambole di finitura pregiatissima in legno tornito e dipinto, in osso o in avorio. Erano quasi sempre dotate di arti snodabili, fissati con piccoli perni al corpo e alla testa, che erano invece intarsiati in un blocco unico di materiale.
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