“Il tempo del futurismo”, la mostra che si interroga sul rapporto tra arte e scienza
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In occasione della Festa della Mamma, caduta il 9 maggio scorso, abbiamo scoperto qualcosa in più sul ruolo ricoperto dalla mater familias, la cosiddetta matrona, presso l’antica società capitolina. Ma per quanto riguarda il padre di famiglia? Anche se molto prima dell’invenzione di zeppole di San Giuseppe e feste in suo onore, la figura del pater familias godeva di grande prestigio e considerazione presso la struttura sociale romana.
La figura del pater familias era cruciale per cementare il fondamento del codice morale della civiltà romana: il capofamiglia doveva accentrate in sé tutte le virtù previste dal mos maiorum, e il suo valore militare e civile e il potere che esercitava nel pubblico si prolungava in casa, dove era l’unico detentore della patria potestas. L’amministrazione di quella che era una vera e propria microsocietà piramidale era tutta nelle sue mani: il sistema familiare si estendeva oltre i confini della famiglia nucleare, e comprendeva anche tutti coloro che vivevano nella stessa casa, ascendenti, discendenti, parenti e schiavi che erano tutti posti sotto la tutela (e il possesso) del pater familias. Dal punto di vista economico, chiunque fosse sotto il tetto del pater familias ne dipendeva totalmente: l’unico, per legge, a poter disporre a piacimento del patrimonio (comprensivo di beni immobili, bestiame, terreni, schiavi) della gens era il padre di famiglia – o, in caso di scomparsa prematura, il maggiore dei figli maschi.
L’autorità pressocché assoluta di cui disponeva il capofamiglia si estendeva anche in ambito religioso: era depositario del sapere e della memoria degli avi, e perciò incaricato di amministrare il culto dei Larii o dèi della famiglia e protettore del fuoco domestico, presso il quale avvenivano le offerte votive.
Come tutti i poteri assoluti, la patria potestà aveva dei risvolti inquietanti e assolutamente lesivi di quei valori che oggi definiremmo al centro dell’amore coniugale e filiale. Infatti, nell’antica Roma al padre era consentito di avere l’ultima parola sull’educazione, la condotta e perfino sulla vita di moglie e figli. A differenza che nella Grecia dell’epoca, dove la validità della patria potestà scadeva al compimento della maggiore età dei figli, a Roma un pater familias rimaneva tale fino alla sua morte e un figlio anche adulto gli doveva obbedienza. La giustizia pendeva tutta a favore di questi ultimi, con la promulgazione di quattro diritti fondamentali: lo ius exponendi consentiva di esporre i figli neonati; lo ius vendendi legalizzava la vendita dei figli a scopi di lucro; lo ius noxae dandi ammetteva l’affidamento del figlio ad altri come risarcimento per riparare ad atti illeciti commessi dal padre; e, infine, il terribile ius vitae et necis, il diritto di vita e di morte sul figlio. L’unica possibilità di scampare all’obbedienza totale era che il genitore morisse: solo così l’orfano, compiuti i vent’anni, poteva divenire a sua volta pater familias e prendere le redini della propria gens, oltre che godere di una totale autonomia economica e giuridica.
Oltre a essere un potenziale despota, con il diritto di esercitare poteri pari a quelli di un magistrato, il padre era il primo e talvolta il solo insegnante dei propri figli maschi. Il figlio, già in tenera età, seguiva il padre nei suoi affari e riceveva da lui un addestramento militare e un’istruzione, così che a diciassette anni era considerato un uomo: poteva indossare la toga virilis. Per alcuni personaggi della storia romana, tuttavia, questo tempo da spendere col padre fu una fortuna: basti pensare all’immensa eredità culturale trasmessa da Plinio il Vecchio, padre generoso e buono, al figlio Plinio il Giovane.
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