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Quante volte sentiamo i ragazzi di oggi lamentarsi di quanto sia dura la scuola, quanto sia impegnativa, di quanto tempo prenda e di quanto tempo gli tolga alla loro vita privata? Forse non sanno come vivevano la loro infanzia e adolescenza i propri coetanei nell’antica Roma, andiamo a vedere!
La nascita di un bambino, in qualsiasi epoca, ha rappresentato sempre una grande gioia, soprattutto per i genitori che lo mettevano al mondo; tanto più se questo era voluto o se magari rappresentava un erede per la dinastia degli imperatori romani. Nel popolo di Roma però i bambini fin dalla loro venuta al mondo rischiavano, come accade a Romolo e Remo, di poter essere esposti. L’esposizione era un pratica praticata dai popoli antichi, anche dagli stessi greci, che consisteva sostanzialmente nell’abbandono di un figlio, che veniva rifiutato o perché si ipotizzava frutto di un tradimento, o perché come nel caso dei due gemelli che diedero poi vita alla leggenda della nascita di Roma, perché collegati a un oracolo non promettente. Così venivano abbandonati, in questa pratica abbastanza crudele, a fianco di discariche, latrine pubbliche, dove magari, per qualche fortunata coincidenza, poteva anche essere salvato grazie al nutrimento che potevano dare loro i passanti. Se questo non avveniva, come nella maggioranza dei casi, il bambino veniva accudito e coccolato all’interno delle case romane.
Fino all’età di sette anni, i bambini romani erano tenuti in casa, tra le braccia amorevoli dei genitori e della propria famiglia. Fino a quel momento i regazzini, come si chiamerebbero oggi a Roma, erano considerati infans, infanti. Questo termine che si è conservato nella sua evoluzione linguistica fino a noi, ha come significato quello di “persona che non sa parlare”, “che non ha ancora l’uso della parola”. Scoccato il settimo anno d’età infatti, il bambino veniva avviato agli studi scolastici, proprio per supplire questa mancanza, che in una società come quella romana in cui la politica e l’arte oratoria erano pervasive in ogni campo, avrebbe portato all’isolamento civile. In questo momento i fanciulli cominciavano ad essere chiamati puer, che significa piccolo. Per sette anni, fino a che il ragazzo non avesse compiuto i quattordici anni di età la scuola sarebbe stata la sua vita e la sua routine quotidiana.
Con una usanza che si è conservata fino a metà del Novecento, i bambini appena nati all’epoca dei romani venivano praticamente immobilizzati all’interno delle fasce, lasciando uscire solamente la testa e rare volte i piedi. Appena si era cresciuti un po’ e si era in grado di camminare per lo meno a carponi, i piccoli venivano liberati dalle fasce e gli si faceva indossare una tunica bianca; i discendenti di famiglie di alto rango a lato di quest’abito avevano cucita un bordo di porpora, a indicarne il livello sociale elevato. Di solito, sia per i maschietti che per le femminucce dell’alta società veniva posta una bulla d’oro ovvero una spilla.
Nella scuola romana i bambini imparavano a leggere e a scrivere, la matematica e soprattutto mandavano a memoria testi classici, che rimanevano scolpiti nella loro testa per tutta la vita. Arrivati ai quattordici anni potevano scegliere se continuare con gli studi oppure no. In ognuno dei due casi arrivati all’adolescenza i ragazzi cominciavano a partecipare alle esercitazioni militari e se necessario venivano inviati al fronte a combattere nelle numerose guerre che hanno caratterizzato la storia di Roma. Questi episodi non erano infrequenti, anzi, numerosi testi letterari e non, riportano proprio vite di ragazzi spezzate dalla guerra. L’altro elemento che a noi può sembrare molto strano e prematuro è che i ragazzi e le ragazze arrivati entrambi all’età circa di dodici o quattordici anni, potevano già sposarsi e mettere su una famiglia! Sicuramente il modello di vita degli antichi romani aveva dei tempi molto anticipati rispetto ai nostri, mi sa che ai nostri ragazzi è andata bene così!
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