La carbonara di Heinz: una lattina che fa rabbrividire i romani
Non è una normale carbonara, ma un affronto alla cucina romana. Una versione in lattina che si trova al supermercato, che è stata[...]
I polentoni sono per antonomasia i settentrionali, tanto che l’appellativo viene normalmente opposto a quello di terroni, nome con cui vengono chiamati i meridionali. I Romani, non essendo settentrionali, non rientrerebbero geograficamente tra i polentoni. Lo furono però nell’antichità e a pieno titolo, basta prendere in mano un paio di commedie di Plauto, la Mostellaria e il Poenulus, per accorgersi che gli Italioti della Magna Grecia chiamavano i romani pultiphagonides, letteralmente, mangiapolenta!
In realtà, la polenta o polta (in latino puls), fu per secoli il piatto-base dell’alimentazione di tutta l’Italia centrale, prima che, nel II secolo a.C., si diffondesse l’uso del pane. La puls era di una pappa semiliquida di cereali (sacri alla dea Cerere-Demetra) pestati e bolliti in acqua. Per i latini, cereali, legumi e verdure rientravano nella categoria dei fruges, i frutti primari della terra, fondamentali alla sopravvivenza e dunque soggetti a severe regole per garantirne la più ampia disponibilità, sottoposti a un prezzo controllato o addirittura politico come nel caso delle frumentationes introdotte dalla lex Sempronia nel 133 a.C.
Spesso quando si parla di raffinatezze, ghiottonerie e stravaganze della cucina di Roma Antica ci riferiamo ad alcune – per noi inconcepibili – ricette di Apicio o alla tragicomica fastosità della cena di Trimalcione descritta da Petronio nel Satyricon. Tuttavia dobbiamo tener presente che piatti e banchetti come quelli erano appannaggio solo di un élite assolutamente privilegiata mentre la stragrande maggioranza del popolo romano si cibava soprattutto di fruges, termine da cui deriva l’aggettivo “frugale”
La puls, che forse anche Romolo mangiava sul Palatino, era fatta di farro, un grano monococco antichissimo e rustico a chicchi vestiti che fu per secoli il cereale più coltivato e consumato nel Lazio prima che gli facesse concorrenza il grano duro, a chicchi nudi, meno laborioso da ridurre in farina, di gusto più fine e per questo usato soprattutto per la panificazione. Presto alla polenta di farro si aggiunsero altri tipi di cereali quali il miglio, il panico, l’orzo e anche legumi, come i ceci e soprattutto le fave, altro alimento base degli antichi Romani. Il farro, tuttavia, restò in uso fino alla tarda antichità, sia bollito dopo essere stato torrefatto, sia frantumato in un mortaio per ottenere quella che ancora oggi chiamiamo “farina”.
Cotta in uno speciale paiolo di terracotta (il pultarium) questa polenta piuttosto scipita veniva arricchita con cicorie, cavoli o cipolle, diventando così una lanx satura cioè un piatto pieno, un miscuglio. È appena il caso di ricordare che il nome “satira” con cui si designa l’unico genere letterario veramente tipico della letteratura latina, deriva per l’appunto dalla satura, che in origine fu un componimento poetico, recitabile, fatto di un miscuglio di battute ironiche, di motteggi, di scherzi, di doppi sensi e di allusioni ridanciane e anche pesanti ed oscene. Ne è maestro il poeta Marziale che nel I sec. a.C. invita l’amico Toranus a una parva cenula (una modesta cenetta) fatta di pultem niveam premens botellus, cioè di polenta bianca ricoperta di salsicce.
Con la diffusione del pane e delle conquiste d’oltremare che portavano a Roma novità ed esotismi culinari, la puls abbandonò la mensa dei ricchi ma rimase ben salda nell’alimentazione delle classi inferiori durante tutto il medioevo. Alcune di queste polentine sono ancora ben vive in molte cucine regionali italiane: la ‘ncapriata pugliese, il maccu e la frascatula siciliane, la fracchiata abruzzese, le tante creme e vellutate di fagioli, piselli, riso, patate… e perché no, la stessa panzanella che possiamo leggere come una lanx satura, cioè una polenta “scomposta” di pane arricchita con ortaggi.
Dopo secoli di schiva latitanza, nel Rinascimento si torna a parlare di polente, questa volta realizzate con un impasto di farina di mais, cereale portato in Europa dalle Americhe da Cristoforo Colombo e che a partire dal 1550 cominciò ad essere coltivato su larga scala in Polesine e nella piana dell’Adige, divenendo in breve tempo una fonte alimentare di base, se non l’unica, per le popolazioni rurali del Nord Italia. Spetta però a un romano, il ricco banchiere Agostino Chigi – in fecondi rapporti d’affari con i mercanti veneziani – il primato di aver fatto ritrarre già trent’anni prima (1518) delle pannocchie di mais sui soffitti della sontuosa villa che si era fatto costruire sulla riva destra del Tevere (oggi Villa Farnesina). Per fornire un modello il più possibile reale delle piante appena giunte dalle Americhe, il Chigi fece piantare alcuni esemplari di zucche, fagioli, pomidoro e mais nei suoi giardini, in modo che il pittore Giovanni da Udine, ottimo allievo di Raffaello, le replicasse fedeli al vero nei festoni che ornano la splendida Loggia di Cupido e Psiche affacciata proprio su quei giardini. Per quanto quelle pannocchie fossero state coltivate come curiosità botanica e a puro uso ornamentale, questo fatto ci permette di affermare che il mais o grano-turco (nel ‘500 era uso frequente definire “turco” ogni prodotto esotico) elesse residenza a Roma ben prima che in ogni altra città!
In quanto alla polenta (di mais), se ne ha testimonianza a Roma e nel Lazio come cibo saziante e di sussistenza fin dal primo ‘600 ma fu soprattutto a seguito della carestia tra il 1815 e 1817 – dovuta alle violente variazioni meteorologiche causate dall’eruzione del vulcano Tambora in Indonesia – che la grande adattabilità climatica del mais permise a milioni di contadini italiani di non morire di fame. Infine, le bonifiche della pianura pontina del ‘900, videro la massiccia immigrazione di manodopera veneta e “polentona”, le cui abitudini alimentari si diffusero anche presso le popolazioni locali.
Ed ecco che attorno all’umile polenta si sviluppò un solido ricettario entrato a far parte della più autentica tradizione dell’Urbe, della Ciociaria, della Tuscia e del Reatino. Vi si trovano interpretazioni originali, deliziose e spesso sontuose in cui la polenta, generalmente gialla e morbida, viene mangiata sulla spianatora oppure fritta o grigliata, maritata a salsicce, spuntature di maiale al sugo o cinghiale in umido, annegata di trippa, ragù o salsa di pomodoro, nobilitata da funghi, formaggio o salumi. Dobbiamo proprio ammettere – con buona pace dei Cesari – che…Sono Polentoni Questi Romani!
Sergio G. Grasso
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