Da “Daruma” all’Eur, il sushi e il relax vanno a braccetto
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Per anni e anni, i nostri cari polentoni, a cui vogliamo un bene dell’anima, si sono appropriati anche di questa ricetta, ma il Vin Brulé, l’originale, è quello dei romani, che importando una ricetta greca, lo hanno migliorato e perfezionato, la ricetta? Ve la sveliamo qui sotto!
E nun c’è niente da fa’, ce provano, ce riprovano e poi ce provano ancora, ma nun c’è niente da fa, quel coro calcistico che si sentiva molto tempo fa negli stadi sembrerebbe aver ragione, al nord c’hanno solo la nebbia! Infatti anche il Vin Brulé, da sempre sentito come ricetta tradizionale del nord Italia e financo del Nord Europa, è nata qui, a Roma, nella Capitale, nella Città Eterna. Per cui c’è da rassegnarsi cari polentoni, anche questa bevanda qui, tipica dell’inverno e famosa per i suoi risvolti medici e curativi, nasce sulle sponde del Tevere. Ovviamente scherziamo eh, ai nostri amici del nord vogliamo molto bene e dobbiamo dare atto di aver mantenuto alta la tradizione, perché con gli inverni miti di Roma difficilmente si sarebbe conservata così a lungo la ricetta di questa bevanda. Ma i manoscritti romani tolgono ogni dubbio, e la ricetta ci è tramandata dal famoso esperto culinario romano Marco Gavio Apicio. Nel suo libro De re coquinaria egli riunisce le più famose ricette dell’antica Roma presenti ai suoi tempi ovvero quelli dell’imperatore Tiberio.
“Versa in vaso di bronzo quaranta once di vino e quindici parti di m(i)ele, perché cuocendo il m(i)ele il vino si scemi. Scalda a fuoco lento di legna ben secche e diguazza con bastoncello finché cuoce; che se leva il bollore, spruzza vino e fermalo; senzachè, a farlo posare, basta sottrargli il fuoco. Raffreddato che sia, riponilo al fuoco, e ciò per due e tre volte. Finalmente toltolo, nel dì vegnente lo schiuma. Quindi vi aggiungi quattro once di pepe trito (pepe nero), tre scropoli di mastice (resina di lentisco), una dramma di malabatro (foglie di nardo) ed altrettanto di zafferano, cinque ossicelli torrefatti di datteri (noccioli del dattero), e pure cinque datteri ammollati nel vino tanto, quanto basti perché riescano teneri a dovere. Compiuta la operazione, versavi trenta libbre di vino delicato. Consumati due mila carboni, la cottura sarà perfetta”.
Come abbiamo potuto leggere direttamente dalla ricetta del Conditum Paradoxum, ovvero vino condito mirabilmente, di Marco Gavio Apicio, differenze con il nostro Vin Brulé odierno ci sono, ma il procedimento che descrive Apicio non era inslito. I romani infatti erano soliti mescolare il vino con altre sostanze per addolcirne e mitigarne il sapore molto forte, molto diverso da quello che beviamo oggi. Le loro tecniche di produzione infatti erano assai più grezze e proprio a causa della sua elevata alcolicità e del suo forte gusto doveva essere mischiato con miele ed altri aromi per essere più facilmente bevibile. Diciamo che la tradizione odierna del Vin Brulé è più figlia delle bevande ristoratrici e toccasana che venivano create all’interno dei monasteri medievali con erbe officinali e mediche. Se oggi volessimo realizzare un buon Vin Brulé rispettando la tradizione moderna, non potremmo fare a meno di chiodi di garofano, cannella, zucchero, scorsa di arancia, scorza di limone, anice stellato, noce moscata, bacche di ginepro e naturalmente del buon vino rosso corposo. Nella sua preparazione va messo tutto a bollire molto lentamente e non appena pronto si può procedere alla bruciatura del vino. Infatti l’ultimo tocco – se lo fate a casa vi consigliamo di eseguire con molta attenzione tutto ciò, per evitare di mandare a fuoco il vostro appartamento -, è quello di dare fuoco con uno stecchetto alla superficie del vino, per fare in modo di bruciare l’alcol in eccesso e di dargli quel tipico aroma di affumicatura. I suoi risvolti benefici sono ormai conosciuti da tutti e può essere la bevanda perfetta da consumare a fine pasto, magari insieme a qualche caldarrosta e inevitabilmente ai vostri migliori amici!
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