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Ciro Scamardella, l’umiltà dello chef, la profondità della sua cucina

foto di: Immagini di repertorio

Ciro Scamardella, giovane e talentuoso chef di origini campane, giurato del Premio Dolce Roma, che ha già conquistato una stella Michelin, racconta la sua esperienza e la sua cucina a Roma.com, dopo l’intervista a Christan Marasca e Fabrizio Fiorani

Raccontaci come nasce questa passione per la cucina e per la pasticceria

In realtà non nasco come pasticcere, però poi colmo questa lacuna facendo un corso di pasticceria al Gambero, ormai tanti anni fa.  Io non mi definisco assolutamente pasticcere, perché l’arte della pasticceria è veramente una cosa a parte. La passione per la cucina invece è venuta inconsciamente, per aver visto cucinare e preparare delle cose deliziose sia da parte di mia nonna prima da mia mamma poi. La scelta della scuola non poteva quindi non essere quella dell’alberghiero, anche perché non mi andava molto di studiare detto sinceramente, ma in realtà avevo scelto la strada del mio futuro. Ho iniziato subito a lavorare con delle stagioni, poi a 18 anni sono andato via da Napoli, ho fatto un po’ di esperienze in Campania, qualcosa al nord Italia, l’estero e poi tanti viaggi che mi hanno permesso di vedere il mondo della trasformazione degli alimenti.

Quindi non parti subito come pastrychef, ma inizi come chef di cucina

Infatti io non mi definisco un pasticcere, questa è un’altra figura rispetto alla mia, che merita moltissimo rispetto, ma io non mi definisco tale. Quello che faccio è vedere il mondo della pasticceria attraverso gli occhi di uno chef.

Credi che questo tuo passato da chef abbia apportato o tolto qualcosa alla cucina dei dolci?

Sicuramente ha apportato qualcosa, perché quando sei chef, a capo di una cucina e hai tutti gli altri reparti che vengono sotto a cascata, devi avere la piena conoscenza di tutto, quindi ti si parla di sfoglia, di frolla, di mousse o di ganache, devi sapere di che cosa si sta parlando, anche se non è il tuo mondo.

Sappiamo che fai parte della giuria di Dolce Roma, immagino che tu abbia avuto esperienza come giudice

Mi è già capitato di fare il giudice di qualche competizione, ma sono sincero, nonostante sia una cosa che mi piace molto, perché sicuramente è insolita, penso che poi, a giudicare, deve essere qualcuno che ha veramente tanto da dire o che ne sappia di più rispetto a chi ti sta facendo provare o assaggiare quella cosa. Io, nonostante tutto il percorso che ho fatto, la stella Michelin, penso che abbia ancora tantissima strada da percorrere. Credo sia necessario poi porsi sempre con molta umiltà, soprattutto rispetto agli altri e al loro lavoro, credo che questo debba essere alla base di tutto.

Secondo te le competizioni sono un buon modo per mettersi in gioco per confrontarsi con altri?

La competizione è sempre qualcosa che da stimoli. Un conto è richiedere a qualcuno una torta, un altro è richiederla a quattro persone differenti messe a confronto; allora c’è il brivido, l’adrenalina, la voglia di fare meglio. La competizione è tutto, ma deve sempre essere vissuta con uno spirito sano e agonistico.

Quanto conta la passione? Per quello che fai, oltre all’esperienza?

La passione è tutto in questo lavoro. Non c’è migliore gratificazione della passione, lei è la migliore benzina per questo mondo assurdo e complesso che è la gastronomia; ci sono talmente tanti di quei compromessi da accettare, che non sono affatto logici, che se non ha la passione è difficile andare avanti su alcune cose.

C’è un ingrediente che prediligi di più tra gli altri? Che ti ispira?

L’ingrediente che forse mi ispira di più perché legato a un ricordo personale e quindi mi riporta a casa sono le cozze, proprio perché è l’attore principale della cucina di Napoli, la mia città.

Che cos’è che ispira i tuoi piatti? C’è qualcosa in particolare?

Non sempre, ci sono piatti che nascono da un pensiero profondo, da un voler mettere in evidenza qualcosa, da un particolare, ma in realtà chi lavora in cucina ha un compito molto importante, dobbiamo portare in tavola non solo qualcosa di commestibile, ma qualcosa che stimoli il cervello di chi mangi, non solo il palato, qualcosa che bussi alle sue porte e dica, stai vivendo un emozione.

Secondo te la cucina è arte, a cosa la assoceresti?

Penso che la frase più bella l’abbia detta tanto tempo fa Moreno Cedroni, identificando lo chef come un artigiano ad alto rischio. L’artigiano infatti riproduce la sua opera, la espone, la vende e poi ne fa un’altra che pur essendo simile non sarà mai uguale. Il cuoco invece è un artigiano ad alto rischio, perché deve ricreare perennemente la sua opera il più possibile uguale a se stessa.

È capitata qualche richiesta o un connubio molto particolare richiesto da un cliente?

Questa in realtà è una cosa molto rara, perché i piatti inseriti nel menù vengono provati e riprovati più volte, quindi le richieste che ci vengono fatte e che assecondiamo molto volentieri sono quelle molto semplici; è difficile che il cliente ti faccia una richiesta di assonanza tra la cozza e il passion fruit, ad esempio.

C’è tra quelli che hai creato un piatto che reputi il migliore?

Mi hanno fatto la stessa domanda qualche giorno fa, il piatto a cui tengo di più è quello che ancora devo fare, perché attaccarsi a qualcosa del passato, dire questa è la cosa migliore che io abbia mai fatto, significa in qualche modo gettare la speranza di fare qualcosa di migliore.

Dal tuo punto di vista di chef, quanto la pasticceria sta prendendo una strada differente dalla classica, non più basata soltanto sul dolce e zuccherato ma in cerca di un mix di gusti particolari?

In cucina sono fondamentali tantissime figure, ma se guardi le vecchie foto di brigate di cucina, c’è sempre stato uno chef di cucina e uno di pasticceria, perché sono dei mondi molto vicini ma allo stesso tempo così lontani che uno non può vivere senza l’altro. Alcune nozioni di pasticceria sono necessarie in cucina e viceversa e così arriva la fusione tra i due mondi.

Come ti ha accolto Roma quando sei arrivato?

Sono arrivato a Roma facendo prima uno stage tantissimi anni fa al Pagliaccio, poi un altro da Metamorfosi; il caso poi ha voluto che io sia tornato a lavorare prima come Capo Partita al Pagliaccio e poi di nuovo sempre come Capo Partita, diventando poi Sous-chef, al Metamorfosi. Direi che Roma non mi poteva accogliere meglio.

C’è un posto di Roma a cui sei particolarmente legato?

Devo essere sincero da due anni a questa parte, abito in periferia e mi piace molto di più rispetto a vivere al centro. Qui passo volentieri del tempo, perché ritrovo quel rapporto vero e vivo con le persone che al centro un po’ si perde.

Cosa ti ha regalato di bello Roma?

In sette anni a Roma ne ho passate di tutte nella Capitale, ma sicuramente tutto questo tempo mi ha dato l’opportunità di conoscere mia moglie e di avere due bimbi uno di due anni e un altro in arrivo.

Cosa consiglieresti a chi vorrebbe intraprendere la strada dello chef?

Di armarsi di tanta pazienza e di circondarsi di persone che anche nei momenti di crisi totale, gli facciano credere in questo sogno.

Chi è stato per te che ti ha fatto credere nel tuo sogno?

Prima di tutto la mia caparbietà; poi ho avuto la fortuna di incontrare professori di scuola alberghiera molto bravi, di aver fatto delle scelte che mi hanno portato a conoscere degli chef che sono dei professionisti assoluti; ma prima di tutto la caparbietà.