“Mundus Patet, Dialogo tra Uomo e Natura”, l’installazione dedicata al terremoto di Amatrice
L’opera di Gianna Parisse, presentata per la prima volta in Italia, contiene elementi fotografici, audio e video che si interrogano sul senso di[...]
Quest’anno il Natale sarà sicuramente differente dal solito, poche persone, pochi cari, sia alla vigilia che il 25, purtroppo er Covid ancora nun abbassa ‘e penne, ma non vi preoccupate a farvi rivivere un po’ l’atmosfera di casa ci pensiamo noi, anzi un bel trittico di poeti romani come il Belli, Trilussa e Zanazzo, che speriamo portino sul vostro viso un sorriso in più!
Ormai siamo a pochi giorni dal Natale e tutti gli addobbi e le decorazioni saranno già montati nelle case di tutti noi, ma c’è sempre qualche ritardatario che ha lasciato l’albero o il presepe in cantina e si sa, il week end è un ottimo momento per preparare il tutto. Così se magari quest’anno avete voglia di rinnovare il vostro presepe ecco l’ispirazione di Trilussa, che consiglia una ricostruzione della natività di Gesù che provenga dal profondo del cuore.
Ve ringrazio de core, brava gente,
pé ‘sti presepi che me preparate,
ma che li fate a fa? Si poi v’odiate,
si de st’amore non capite gnente…Pé st’amore sò nato e ce sò morto,
da secoli lo spargo dalla croce,
ma la parola mia pare ‘na voce
sperduta ner deserto, senza ascolto.La gente fa er presepe e nun me sente;
cerca sempre de fallo più sfarzoso,
però cià er core freddo e indifferente
e nun capisce che senza l’amore
è cianfrusaja che nun cià valore.
Il cenone tutti insieme quest’anno purtroppo non potremmo organizzarlo, ma a ricordarci di come l’abbiamo vissuto lo scorso anno e di come torneremo a viverlo dal prossimo in poi, ci pensa Giuseppe Gioacchino Belli, che in un breve sonetto ci descrive un cenone della vigilia dei suoi tempi nelle case di un cardinale.
Ustacchio, la viggija de Natale
Tu mmettete de guardia sur portone
De cuarche mmonziggnore o ccardinale,
E vvederai entrà sta priscissione.Mo entra una cassetta de torrone,
Mo entra un barilozzo de caviale,
Mo er porco, mo er pollastro, mo er cappone,
E mmo er fiasco de vino padronale.Poi entra er gallinaccio, poi l’abbacchio,
L’oliva dorce, er pessce de Fojjano,
L’ojjo, er tonno, e l’inguilla de Comacchio.Inzomma, inzino a nnotte, a mmano a mmano,
Tu llí tt’accorgerai, padron Ustacchio,
Cuant’è ddivoto er popolo romano.
Infine il gioco italiano per antonomasia, quello che, carte o meno, non può mancare in nessuna casa nostrana, che almeno quella volta l’anno, durante la vigilia o subito dopo il pranzo di Natale, tradizione vuole che sia svolto: la Tombola. E se tra i più giovani all’inizio è poco allettante, appena si cominciano a tirare i numeri, subito ci si appassiona al gioco. Zanazzo qui ci restituisce una tavolozza di voci, come quelle che di solito sentiamo ai nostri tavoli, chi chiede se è già uscito il numero, il parente che sa tutti i nomi in codice dei numeri e alla fine la domanda delle domande, come li copriamo i numeri? Ceci o fagioli?
A quanto la cartella? – A mezzo sordo.
Scejetemene ‘n paro affortunate.
Chi fa cassa? – Er sor Pietro – Eccheve er
Me le capate voi, me le capate? sordo.
Vòi questa? cor un quattro, un cinque e un sei
perse er palazzo er Duca Mattei!Chi aregge er cartellone? – Pagnottella
Ma te me vòi mannà pe’ micchi a me?
O caccia er sordo o lassa la cartella,
sinnò ciabbuschi sleppe a volontè.
Ah Peppe, famo a mezzo? – No, Scardella
abbi pacenza, te ciài troppa jella .lo qui ciò ventun sòrdo de cartelle.
Bisogna vede si aribbatte er conto.
Dua tu, tre lei, quattro cartelle quelle,
sei io, dieciotto er fijo de Panonto ,
tre quelli, sei quell’antri, quattro Agusto,
che so’ quarantadua. -Viè ‘r conto giusto.Famo quaterna, tommola e cinquina.
Anzi; famece puro l’ambo e er terno!
Ve sete aribbambita, eh sora Nina,
possiate perde’ er fiato in sempiterno!
Famo cinquina e tommola: ve fa?
Aspetta, Scamicchietta, nun tirà.E li segni?- Commà, co’ che segnamo?
Com’è? v’ho messo lì facioli e ceci.
Gnente, commare mia, se li magnamo?
a cropicce saremo armanco in dieci.
Me date du’ facioli, sora Teta?
E io co’ che li cropo? co’ le deta?Natale – Questo qui nun zara mai.
Sette – Dolori – Venti!… Ottantacinque!
Ventotto – Prete – Trenta -Gent’assai!
È uscito er ventidua? – Già incominciamo?
Basta, commare mia, che la piantamo!Sor coso, smucinate quele palle.
Che l’ho da smucinà più d’accusì?
Subbito che le poggino scannalle
de la cartella mia nun vònno uscì!
Tavola apparecchiata! Sessantuno!
Sta madonna d’Andrea va già per uno!Je la potessi fà, sangue d’un dua !…
Cinquantatrè! Trentuno! Ventinove!
Porazziere! Quaranta! Ottantadua!
Tiremelo, Scarnicchia! Trentanove!
Cinquinaa! -Areggistrate, padron Santi.
È pagabbile a vista: annate avanti.Aspetta, nun tirate, Nazzareno,
che ‘sta spisciolosaccia de mi’ fia
m’ha rigalata ‘na pisciata in seno!
Ma fate a modo mio, sora Cecija,
annatev’a pulì, ché qui da voi,
nun dubbitate, ce guardamo noi.Zinnòcola, Sessanta! – La madonna.
Diecissette! – È sortito lampioncìno?
No, sta in fresco. – Ma, dico, quela donna,
si vostro fijo ce trema er tavolino
o ce scopre li segni o ce li sciacqua…
Cinquina! – È stata fatta. – Un bicchier d’acqua!lo già vado per uno ch’è mezz’ora.
Trentasei! Dicidotto! – È uscito er trenta?
Er ventinove… er cinque? – St’anticora
se contenta de poco, se contenta! …
Fermete fio, nun tritticà la sedia.
Co’ ‘ste crature è propio ‘na commedia!Otto! -Tommola! – Rotta de collaccio!
Reggistra ‘sta cartella, annamo Nina. .
Chi vince? – Ha vinto er fio de Turaccio,
quello che s’è pappata la cinquina.
Quanti so’ usciti, tanti n’ha segnati,
capite che bucetti arissettati?Ne famo un’antra? – No, commare, annamo:
ciò la pupa che già me s’è addormita;
si je stranisco ero sonno, come famo?
Dico, se tratterà de ‘na partita.
Credeteme, sor Santi, che nun posso:
perchè si me se sveja e un guaIo grosso.Famo la bella a un sordo la cartella
dice un patito tutto premuroso
che incora vò sgrinfià co’ la su’ bella ;
ma er boccio s’arza e dice: – Bon riposo.
La camera se vota in quattro botte
ché tutti se ne vanno, e bonanotte.
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