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“Non è bello ciò che è bello, ma è Belli ciò che piace” soprattutto a noi romani! Perciò da oltre 200 anni continuiamo a leggerne gli instancabili versi.
Con oltre 2200 sonetti – più del doppio dei versi della Divina Commedia Dantesca, per intenderci – tutti in vernacolo romanesco, Gioacchino Belli fu uno degli scrittori dialettali più influenti e proficui di sempre. Nato a Roma, nel 1791, a cavallo fra gli anni della prima Repubblica romana e l’inizio dell’età contemporanea, il poeta non ebbe inizialmente vita facile. Sebbene la famiglia fosse benestante, le sfortune non tardarono ad arrivare: persi prima due fratelli, e poi presto anche i genitori, dovette lasciare gli studi e dedicarsi a brevi malpagati lavoretti, arrotondati da qualche lezione privata. Questo non gli impedì, tuttavia, di applicarsi sin da subito alla stesura di versi poetici e letterari, versi che videro la luce già agli inizi dell’800, testimoni della sua precoce curiosità e del suo accurato spirito d’osservazione. Gli scritti non passarono certo inosservati e l’incarico come segretario all’Accademia letteraria dei Tiberini non tardò ad arrivare: una prima entrata economica sicura permise quindi, al Belli, di proseguire in campo letterario con più tranquillità. La fine di tutti i suoi problemi economici arrivò però solo più tardi, sposando una ricca vedova romana: il fortuito matrimonio rappresentò per il poeta l’occasione di dedicarsi completamente alla sua vocazione letteraria, entrando in contatto, proprio in questi anni, coi versi di Carlo Porta, poeta dialettale milanese.

Se agli inizi si occupò soprattutto della stesura di opere in lingua italiana, votate allo stile neoclassico e conservatore dell’epoca, l’incontro coi versi milanesi del collega Porta fu piuttosto rivelativo: Belli comprese l’importanza del dialetto e, in particolare, la sua insostituibile capacità espressiva. Nei successivi sette anni – soltanto! – a partire dal 1830, lo scrittore romano riuscì a comporre tutti i sonetti di cui oggi disponiamo: un incredibile fiume in piena di portata eccezionale!
Vi incuriosirà sapere, però, che i componimenti non furono mai pubblicati durante la vita dell’autore tanto che, nel testamento, Belli stesso ordinava al figlio di bruciarli! Richiesta, questa, che per fortuna nostra non fu mai accolta, donandoci la grande possibilità di leggerli ancora. Il poeta, infatti, che amava leggere i suoi componimenti soltanto agli amici, prese sempre sottogamba il valore di quei versi, pensando si trattasse soltanto di passatempo divertenti: una sottovalutazione che oggi, ormai sotto gli occhi di tutti, può ben essere disapprovata!
Se per un verso, in società, il Belli mostrava la sua piena approvazione alle decisioni papali, per via pure del suo tardo ruolo di censore; per altro, nei suoi scritti dialettali, si volse sempre alla critica dell’immobilismo sociale causato proprio dal potere dello Stato della Chiesa, negatore di ogni progresso.
Neppure il popolo, la “plebe” – come amava definirla lui – falsamente pia e casta perché devota, superstiziosa e lasciata all’ignoranza, sfugge all’indignazione del Belli che, puntuale e freddo, ne descrive i modi, i costumi, le usanze e la scelta di farsi sottomessa e subire. Come si evince dai famosi versi de Li soprani der monno vecchio in cui, a seguito di un editto, un re pronuncia la celebre frase: “Io so’ io, e vvoi nun zete ‘n cazzo” che molti di voi ricorderanno come battuta emblematica di Alberto Sordi nei panni del Il marchese del Grillo. D’altra parte, proprio la percezione del vulgus fu la tematica centrale dei suoi scritti, volti a raccogliere e documentare per primi gli aspetti culturali del popolo romano, compresi quelli più strettamente dialettali e proverbiali (di qui l’ispirazione dei successivi Zanazzo e Trilussa). Così, nell’affascinante connubio fra il più attento realismo e la più schietta satira a tratti scandalosa, la sfrontata inclinazione belliana produsse una quantità inestimabile di versi talvolta audaci e dissoluti, tutti opera della più tagliente ironia. Perciò, se per molti il Belli fu contraddittorio, a noi piace pensarlo invece come il più scaltro dei ricercatori oggettivi: se riuscì, infatti, a fotografare ogni aspetto della società romana ottocentesca, fu proprio grazie al suo saperci star dentro!
«Gran bell’arte è er pittore, lo scoparo,
Er giudisce, er norcino, er rigattiere,
Er beccamorto, er medico, er cucchiere,
Lo stroligo, er poveta e ’r braghieraro.
Piú mmejj’arte è er cerusico, er barbiere,
Er coco, er votacàntera, er notaro,
Er ciarlatano, er curiale, er chiavaro,
E ll’oste, e lo spezziale e ’r funtaniere.
Stupenna è ll’arte de chi ssona e ccanta,
Cuella der banneraro e dder zartore,
E ttant’antre da dí ffino a mmillanta.
Ma la prima de tutte è er muratore,
Ché cquanno s’arifà la Porta-Santa
Capo-mastro chi è? Nostro Siggnore»
(Giuseppe. G. Belli, gennaio, 1833)
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