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Ispirato dal Belli, e contemporaneo di Trilussa, Giggi Zanazzo fu il più attento testimone e documentatore di una cultura romana che avremmo perso: una quantità di lavori dal valore inestimabile. Perciò, romano o non romano, non puoi non sapere chi fu!
Roma 1860, in via dei Delfini 5, nel centralissimo rione Campitelli, compreso tra il Campidoglio e il Palatino, fra i reperti storici più suggestivi dell’antica Roma, muove i primi passi uno dei più importanti rappresentanti della cultura romanesca: Luigi Antonio Gioacchino Zanazzo, a tutti più semplicemente noto come Giggi Zanazzo. Poeta, commediografo, studioso e bibliotecario romano, è considerato oggi il padre della romanistica, scienza addetta allo studio delle lingue neolatine. Dalla penna affilata e l’animo realista, fu uno dei maggiori verseggiatori folkloristici romani: a lui dobbiamo la conoscenza, raccolta e documentata attraverso i vivi racconti degli anziani, della cultura e delle tradizioni del popolo di Roma, precedenti il suo ruolo di Capitale nell’Italia unita. Attraverso il suo più celebre lavoro, Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma, Zanazzo riuscì ad imprimere, descrivere e disegnare, mediante l’uso brillante di una prosa tutta romanesca, la cultura popolare di una Roma che, di lì a poco sarebbe andata perduta, soggetta alla modernizzazione, l’immigrazione e i radicali cambiamenti sociali ed economici, dell’epoca in arrivo. Giggi Zanazzo fu al tempo stesso protagonista ed interprete di quel panorama tumultuoso, della cultura romana e romanesca, che furono gli ultimi decenni dell’800 e primi del XX secolo, gli anni della formazione di quella che sarebbe stata la città moderna di Pascarella, Carducci, D’annunzio e Pirandello; gli anni di quell’ irreversibile trasformazione che Roma subì da città papale a metropoli.
Di quel passaggio della città, dei suoi costumi, dei suoi linguaggi e dei suoi usi, Zanazzo si fece da un lato raccoglitore scientificamente accurato e dall’altro portavoce poetico, intriso di satira, sagace ironia e pure un po’ di nostalgia. Il linguaggio usato nelle sue opere ne fa uno degli autori romani più interessanti: laddove altri suoi contemporanei, come Trilussa, finirono per utilizzare un dialetto più levigato, la sua scrittura rimase sempre la fedele trasposizione del parlato romano di strada, quello appartenente – per intenderci – alle classi sociali più basse. Fortemente ispirato dagli “immortali sonetti” – come li definì lui stesso – del Belli, altro autore romano di celebre fama, Zanazzo cominciò a dar forma ai suoi pensieri scrivendone poesie, racconti, opere teatrali in tipico dialetto romanesco. Scritti che, a distanza di oltre cento anni, riescono a mantenere inalterato il loro fascino e che, per certi versi, mostrano il sapore di un popolo non così diverso da quello in cui viviamo, come la descrizione puntuale che fece del tipico abitante di Roma in È romano, de Roma; o ancora la lucida rappresentazione che diede, ne La verità, di un’Italia che non sembra essere poi così lontana, nonostante lo scritto risalga a fine ‘800!
Ancora oggi, sono quindi particolarmente suggestive le parole e gli argomenti pungenti del Zanazzo, immagini riferite ad un’epoca apparentemente distante da noi e, al contrario, tuttora taglienti e attuali su certi aspetti della nostra modernità, tanto capaci di suscitare quel misto di ilarità e riflessione di cui solo i più acuti artisti sono capaci. Così come le sue famose e fortunate commedie recitate al Teatro Rossini dalla Compagnia Romanesca, di cui lui stesso fu fondatore, motori di quel forte impulso al teatro dialettale romano che incuriosì la regina Margherita, spesso presente tra il pubblico. Non contento, lo scrittore, per l’editore Perino, fondò le due riviste periodiche dialettali Rugantino e Casandrino, poi fuse nell’unico periodico Rugantino e Casandrino, inaugurando l’inizio della produzione stampa romanesca più consistente di sempre.
Di seguito, una poesia dell’autore
Er fattaccio
– Levateve! – Scansateve! – Dio mio! “.
– Curete, che s’ammazzeno, curete !…
– Ch’è stato, sor Giuseppe? – Nun vedete?
So’ botte all’osteria de vostro zio.”
Lasseme! – Aiuto!! Giuvachino! Ah fio!..
– Zitta, sora Ghituccia, nun piagnete”.
– Ma no, ma no: ma quieta, santo Dio:
ch’a voi d’annà laggiù nun ve compete.
– Fijo, fallo pe’ st’anim’ innocente!
fallo pe’ mamma tua; butta er cortello!
nun te guastà li fatti tua pe’ gnente…
-Te trincio er core, si rifai quell’atto! !
– Uh Dio! – Madonna! – Cristo che macello!
– Squajamese, regazzi; ché l’ha fatto
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