Carmentalia, un’antica celebrazione di sapienza e profezia
I Romani celebravano i Carmentalia in onore della Dea Carmenta, protettrice del futuro e della maternità. Riti, preghiere e offerte scandivano una festa[...]
La città Metropolitana di Roma non è solo il comune più popoloso d’Italia (4 milioni e 320 mila abitanti) ma anche il più esteso d’Europa, con i suoi quasi 1300 Km2 di superficie, pari alla somma delle 10 più grandi città italiane: Milano (sette volte più piccola), Napoli (undici volte), Torino (10 volte), Palermo (8 volte) Genova (5 volte), Padova, Bologna, Firenze, Bari e Cagliari. Ma non fu sempre così.
Solo 150 anni fa, all’epoca della breccia di Porta Pia, a Roma abitavano 200 mila persone e la futura Capitale del Regno d’Italia era poco più di una congerie di case popolari all’interno delle Mura Aureliane, alcune ville e pochi palazzi nobiliari lungo le rive del Tevere, molte chiese e una mole infinita di antiche rovine in mezzo alle quali pascolavano da secoli pecore e vacche. Spingendosi oltre le mura ci si trovava immersi nel suburbio di vigne e orti, solcato da strade sterrate che si spegnevano in un malarico Agro Romano fatto di latifondi ostinatamente incolti del clero e dell’aristocrazia nera.
Per almeno mille anni dopo la caduta di Roma e dell’Impero d’Occidente, quella che fu la più importante e splendida popolosa città del mondo, in cui vivevano nel II secolo 1 milione e 200 mila abitanti, rimase priva di qualsiasi struttura politica, militare ed economica e uguale a ciò che la ridussero tre devastanti saccheggi in soli 60 anni: il primo ad opera dei Galli di Brenno nel 390, il secondo perpetrato dai Visigoti di Alarico nel 410 e l’ultimo compiuto dei Vandali di Genserico nel 455. Undici anni dopo Odoacre, Re degli Eruli, depose Romolo Augustolo, l’ultimo effimero Imperatore di Roma si autonominò Re d’Italia e assunse l’appellativo di “Augusto”. Ottenne anche il tacito avallo di Zenone Imperatore d’Oriente, al quale la caduta e la rovina di Roma stava molto a cuore. E rovina fu, di guerre, pestilenze e carestie.
I nobili e i possidenti che si trasferivano in quella “Nuova Roma” che era Bisanzio, lasciavano allo sbando pastori e contadini con tutto il seguito di fondi disabitati, campagne incolte, pascoli alle ortiche e boschi inselvatichiti che si riprendevano le antiche strade. I mercati attorno ai Fori erano spogli e gli smantellamenti di quasi tutti gli acquedotti operati dai barbari assetavano la città e la rendevano preda di epidemie di peste. Chi non moriva fuggiva: plebe, operai, marinai e meretrici. Ridotta a un desolato ed esausto distretto periferico con meno di 30 mila abitanti, Roma passava di mano agli imperatori di Bisanzio (dal 536) quindi a una sequenza di Re germanici – ariani ma opportunamente cristianizzatisi – che avevano stabilito la loro corte prima a Ravenna (Unni e Ostrogoti) e poi a Pavia (Longobardi). In città rimaneva un senato-fantoccio, esautorato di ogni potere e delegato al disbrigo delle pratiche amministrative.
Nella latitanza di un potere imperiale lontano e impotente, ad assicurare la sopravvivenza dei superstiti intervenne il Papa, custode delle tombe di Pietro e Paolo, Vescovo di Roma e autorità suprema dell’unica religione ammessa nell’Impero. A lui l’Imperatore Costantino, già nel 314, aveva donato Roma e l’Impero d’Occidente con un documento che poi si dimostrò costruito ad arte cinque secoli più tardi. Nel 590 Papa Gregorio I (che noi conosciamo come San Gregorio Magno), figlio di una famiglia senatoriale, così si esprimeva: “Roma è diventata calva come un’aquila che ha perduto le piume […] oppressa da uno smisurato dolore, si spopola di cittadini; assalita dal nemico, non è più che un cumulo di macerie“. Straordinaria guida politica e religiosa, Gregorio fece un energico repulisti di faccendieri all’interno della Curia, riformò il rito della messa, lasciò in eredità il canto gregoriano e, per primo, si prese a cuore alcune vestigia imperiali fra cui la Colonna Traiana.
A risolvere la faccenda di chi comandava sulla Città Eterna ci pensarono i Longobardi che nel 750 invasero Ravenna, capitale dell’Italia bizantina, lasciando di fatto Roma e la Cristianità in mano al Pontefice e alla Curia. Dalla Basilica Laterana, Papa Gregorio poteva disporre di un vero e proprio esercito di vescovi, diaconi, parrocchie, pievi e chiese rurali che, oltre a funzionare come un indispensabile strumento di soccorso per le popolazioni esauste e intimorite, diventava anche un capillare dispositivo di controllo dei fedeli e del territorio. Non così i suoi successori che spianarono quanto rimaneva degli antichi templi pagani per edificarvi sopra chiese e basiliche, che utilizzarono statue e colonne come materiali da costruzione per palazzi e residenze, che sbriciolarono marmi e travertini per farne calce e che fecero del Colosseo, dei Fori e del Circo Massimo cave di pietre. Il saccheggio fu particolarmente efferato per quasi tutto il ‘300, periodo in cui i Papi si trasferirono ad Avignone (1308-1378) lasciando il potere politico in mano alle più potenti famiglie patrizie romane: i Colonna, gli Orsini, i Caetani, gli Annibaldi, i Savelli, i Frangipane. Pur di superarsi l’un l’altro nella costruzione di sontuosi palazzi, i nuovi padroni di Roma si dettero alla più bieca spoliazione, che continuò anche quando la sede papale tornò a Roma (1378) insediando sulla cattedra di Pietro alcuni esponenti delle stesse famiglie.
Va però dato merito ad alcuni Papi del ‘400 di aver agito in controtendenza. È il caso di un Pontefice erudito e umanista come Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini che nel 1462 emanò una bolla per tutelare i “segni della maestà” antica di Roma e proibire ulteriori spoliazioni, salvo riservarsi il diritto di utilizzare sette colonne dal Portico di Ottavia per costruire una loggia a San Pietro. Altri pontefici provvidero a rimettere in funzione gli acquedotti in rovina da mille anni, a dotare la città di fontane monumentali, ad aprire nuove strade, ad abbellire piazze e a dare un senso al passato urbano, storico e monumentale della città. Tra coloro che stimolarono i Papi in questo senso, emerge la figura di Raffaello Sanzio a cui un Papa mecenate come Giulio II Della Rovere affidò l’incarico di affrescare le stanze vaticane. Giunto a Roma nel 1508, Raffaello rimase sconcertato dallo stato di degrado della città e dallo stato di abbandono in cui versavano gli antichi monumenti. Condusse un accurato rilievo delle rovine e della toponomastica, recuperando e restaurando sculture bassorilievi ed iscrizioni altrimenti destinate alla produzione di calce. Un lavoro enorme e appassionato che nel 1515 gli valse la nomina di “presidente di tutti i marmi e di tutte le pietre che si scaveranno in Roma”, sfortunatamente interrotto dalla sua morte improvvisa, a soli 37 anni ma grazie al quale, seppure in ritardo di cent’anni rispetto alla Firenze medicea, anche Roma entrava a pieno titolo nel suo Rinascimento.
Sergio Grasso
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