Con “Carmen” a teatro, passione e destino vanno in scena
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Compagnoni, grandi bevitori e mangiatori al tavolo da pranzo, i romani però da sempre sono anche grandi amanti dei giochi a carte che si fanno in osteria, con tutto quello che ne consegue, tra grandi scommesse (vietate al tempo dei romani), bari e risse per gli imbrogli!
Oggi, tutto sommato, in alcune forme legalizzate, il gioco d’azzardo e le scommesse sono permesse, vedi le slot machine, i casinò, ma anche i famosi totocalcio o le puntate ai cavalli (come dimenticare la mitica tris Soldatino, King e D’Artagnan, sognata e mai giocata da Mandrake e Pomata ovvero Gigi Proietti e Enrico Montesano in Febbre da Cavallo). Tutto questa passione nel gioco d’azzardo, potrebbe derivare proprio dagli antichi romani, grandi scommettitori e conoscitori di moltissimi giochi, al tempo però proibiti se non in alcune situazioni particolari dell’anno.
Ed era proprio in queste due occasioni, che nell’antica Roma era permesso a tutti coloro in età adulta di giocare d’azzardo. I Saturnali era un periodo dell’anno, che partiva proprio da oggi, 17 dicembre e si prolungava fino al 23, in cui i romani festeggiavano l’insediamento nel tempio del dio Saturno. In questo periodo nella Capitale dell’impero avveniva un completo sovvertimento delle regole sociali; infatti gli schiavi si potevano considerare degli uomini liberi, potendo banchettare e addirittura essere serviti dai propri padroni. Tutto alla rovescia, ‘nsomma! I Saturnalia erano anche una sorta di Natale nostrano ante litteram, infatti i partecipanti a questi banchetti e sacrifici, erano soliti scambiarsi regali e doni, detti strenne insieme ad all’augurio, io Saturnalia! Proprio grazie al sovvertimento totale delle regole a Roma, in questo periodo si poteva giocare d’azzardo e forse chissà, proprio da questa usanza sono nate le cartate di Natale a casa degli amici.
Il posto più adatto per giocare anche fuori da questi periodi consentiti era il retro delle thermopolie, gli antichi fast food di epoca romana o nelle cauponae (le taverne) o infine anche all’interno delle terme, grande luogo di socializzazione romano; qui si dava vita a bische clandestine, cercando di rimanere il più possibile lontano da occhi indiscreti. Tutto ciò perché in questi luoghi giravano molti vigilantes che erano addetti anche a stendere delle vere e proprie multe, che potevano arrivare anche a quattro volte la posta scommessa. Siccome i giochi, ovviamente, erano truccati, ad essere multati erano sia il truffatore che il truffato, in modo da impartire una bella lezione ad entrambi. Un’altra curiosità della legge romana, e che disincentivava sicuramente al gioco d’azzardo, era che i debiti contratti durante queste partite non erano impugnabili davanti a un tribunale e anzi, se chi aveva perso, come dire, rosicava parecchio, poteva anche citare in giudizio il suo aguzzino e farsi restituire la somma persa.
Il gioco più diffuso era sicuramente quello dei dadi, a sei facce come i nostri che venivano posti all’interno di una coppa o di un recipiente (turricola) e poi venivano lanciati sul tavolo. Nel tempo si era dato i nomi di divinità o di eroi alle diverse combinazioni di numeri che uscivano, come l’ambìto e prestigioso colpo di Venere (tutti i dadi davano numeri differenti) o quello dei cani (tutti uno). Un altro gioco famoso era quello degli astragali, molto simile al precedente ma che si giocava con piccoli ossi di pecora che in base a come rotolavano davano un risultato differente: se cadeva supinum erano 3 punti, pronum 4 punti, planum 1 punto e poi quello più prestigioso il tortuosum che valeva 6 punti. Poi c’era il gioco delle Tesserae Lusoriae, una specie di antenato del gioco dell’oca, la micatio – l’odierna morra -, il pari e dispari, testa o croce, il tropa antenato del bowling che si giocava con le noci e molti altri che sembrano essere progenitori dei nostri giochi moderni.
Un popolo dunque di grandi giocatori e scommettitori e indimenticabile a proposito rimane la scena del Marchese del Grillo, Alberto Sordi, che in una bettola romana giocando a carte, scopre dei bari, dando vita a una rissa finale. Anche il nobile stava per essere arrestato, ma riconosciuto dal commissario proferisce la famosa frase: “Me dispiace, ma io so’ io, e voi nun sete…”
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