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Coltivati o selvatici, apprezzati e versatili come contorno e presenti sulle tavole di tutto il mondo, gli asparagi sono stati una delle verdure preferite come ingrediente culinario anche dagli antichi romani.
Il nome che ancora oggi diamo a questi steli verdi deriva dal greco aspharagos, che significa germoglio, ad indicare la parte apicale dello stelo, l’unica commestibile. È probabile che vi sia un secondo motivo dietro la scelta di questa denominazione: ritenuto fonte di proprietà curative, l’asparago era in grado di far “germogliare” il benessere del corpo, di rigenerarlo. Sembra però che il termine derivi da una parola egizia, e da ciò desumiamo che la coltura dell’asparago ha origini antichissime, ed è cominciata in Mesopotamia, quasi duemila anni fa, da dove si estese poi verso l’antico Egitto e in Asia Minore e, successivamente, si diffuse in tutto il Mediterraneo. Teofrasto di Ereso, nel III sec. a C., è il primo a fornire uno studio botanico dell’ortaggio nella sua opera Storia delle piante, chiaramente ispirati ai lavori naturalistici del suo maestro, il filosofo Aristotele. Se in Grecia, però, gli asparagi erano impiegati più per le loro proprietà officinali che non per quelli nutrizionali, i romani ne andavano davvero ghiotti. Addirittura, pare abbiano intitolato all’asparago un tipo di imbarcazione! Ma andiamo con ordine.
Testimonianze risalenti già al 200 a.C. ci riferiscono dell’ingresso dell’asparago nella gastronomia romana, ove venne presto celebrato come uno degli ingredienti principe. Cibo amato anche dagli imperatori (sembra che Giulio Cesare li preferisse conditi con il burro), pare che i Cesari avessero fatto costruire delle navi appositamente pensate per i carichi di asparagi da raccogliere nelle province dell’Impero: dalla loro funzione, per traslazione, cominciò a riferirsi a queste imbarcazioni con il nome di “asparagus”, appunto. I romani furono i primi a sperimentare l’indovinatissimo abbinamento degli asparagi con le uova: erano soliti cospargerli con il tuorlo sminuzzato delle uova sode, in una sorta di primitivo esempio di Asperges à la Flamande. Anche Svetonio ci mostra quanto trasversalmente diffuso fosse l’uso dell’asparago nell’alimentazione dei romani: nel De Vita Caesarum, addirittura, si serve di una similitudine vegetale per descrivere la rapidità di un’azione di Augusto: “è servito meno tempo che per cuocere gli asparagi” (“citius quam asparagi coquantur”), scrive lo storico. La vera regola era una, e tassativa: gli asparagi andavano consumati al dente, appena scottati in acqua bollente, per mantenerne il gradevole colore verde smeraldino. Sul corretto metodo di cottura degli asparagi sono tutti d’accordo, da Svetonio a Plinio, mentre Catone il Censore, nel De agricoltura, ne espone le tecniche di coltivazione e decanta le qualità degli asparagi del ravennate, dalla polpa carnosa e saporita.
Non solo metodi di coltura e informazioni sulla varietà di specie che già andavano differenziandosi in epoca così antica: altri autori tramandano metodi di preparazione e conservazione di questo prelibato ortaggio. Nel suo ricettario, il gastronomo e scrittore latino Marco Gavio Apicio (25 a.C. – 37 d.C.) consiglia di far essiccare gli asparagi, la cui stagionalità è molto limitata, così da poterli impiegare fuori stagione ammollandoli nell’acqua. Inoltre, Apicio riporta una ricetta fredda gustosa e facilmente riproponibile sulle nostre tavole in questa stagione. Apicio suggerisce di non buttare gli avanzi degli asparagi, la parte più dura dello stelo che lui chiama “asparagum precisura”, ma di tritarli in un mortaio insieme a una coppa di vino, olio, cipolla, pepe, coriandolo e santoreggia. Unendo la mistura che si crea all’uovo sbattuto si ottiene, dopo una breve cottura in padella, una deliziosa frittata dal sapore antico (antico romano, si intende)!
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