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Nascere donna a Roma, voleva dire nascondere il proprio nome a tutti, affinché si potesse rappresentare soltanto la famiglia alla quale si apparteneva. Ma scopriamo qualcosa di più a riguardo.

Il nome delle donne era ai tempi di Roma antica un segreto che doveva essere custodito nel tempo. A differenza degli uomini, una donna era rappresentata soltanto dal Gens, ovvero dal gruppo di famiglia cui apparteneva ed era accompagnata dall’appellativo “Maior” o “Minor” per specificarne l’anzianità oppure da un nomignolo che la rappresentasse esteticamente.
Un uomo invece aveva il nome, il Gens di appartenenza e come se non bastasse un cognome che era spesso unito ad un soprannome.
La distinzione tra nome di uomo e donna si può notare bene nei medaglioni dei signori dell’Impero. In quello di Lucilla, imperatrice romana e figlia di Marco Aurelio, non è iscritto il nome ma è presente soltanto il titolo di Augusta, accompagnata dalla parola Lucilla. Quasi come se il suo nome fosse un oscuro segreto che non può assolutamente essere svelato.

Il nome della donna diventava un segreto già dalla sua nascita. Una bambina romana, 8 giorni dopo essere messa al mondo, veniva purificata attraverso un rito detto “lustratio”, durante il quale veniva lavata e resa quindi pura.
Si trattava di un momento di festa al quale partecipavano anche i genitori ed i parenti vari della bambina, durante il quale veniva assegnato alla piccola un nome, noto come “praenomen”, che doveva però rimanere un segreto conosciuto soltanto dalla famiglia ma che poteva essere utilizzato delle mura della casa.
Era un nome che quindi non si poteva mai rivelare, neanche al momento del matrimonio. Quando una donna si sposava e si presentava all’ingresso della casa del futuro marito, questa doveva prendere il nome del proprio compagno e metterlo al femminile. Da quel momento in poi il nome della sua famiglia, della sua Gens veniva poi sostituito da quello dello sposo oppure aggiunto a questo.
La donna portava così questo segreto per sempre, perfino nella propria tomba. Anche negli epitaffi infatti, il nome della donna era sempre assente.

Nessun divieto, nessuna legge imponeva alla donna di nascondere a tutti il proprio nome, eppure lei lo faceva per una questione di abitudine e soprattutto tradizione.
Sin dalla notte dei tempi siamo abituati a chiamare le cose con il loro nome, in quanto questo rappresenta la loro essenza e in certo senso genera una sorta di contatto con queste.
Il nome di una donna di conseguenza rappresentava la sua singola essenza. Una buona donna romana doveva invece rappresentare la famiglia cui apparteneva. Chiamarla con il proprio nome avrebbe significato poi avere un contatto con lei.
Una buona donna di famiglia, per essere tale doveva quindi essere totalmente fedele alla famiglia di appartenenza, che ricordiamo era rappresentata costantemente da uomini.
Doveva di conseguenza render loro onore servendoli ma soprattutto portare il loro nome, diventando a vita segrete custodi del loro nome di origine ma pubbliche divulgatrici del nome della propria famiglia, nel corpo e soprattutto nell’anima.
Solo le prostitute infatti, che non avevano famiglia e che in un certo senso appartenevano a tutti attraverso il loro corpo, erano le uniche donne ad avere il nome, mentre una brava donna di famiglia, lo nascondeva sempre come se questo fosse un peccato.

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