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Lontano dallo stereotipo dell’artista squattrinato, Jean-Baptiste Camille Corot (Parigi, 16 luglio 1796 – Parigi, 22 febbraio 1875) ha esercitato lungo tutto l’arco della sua vita la professione di pittore per puro diletto, senza confrontarsi con alcuna preoccupazione economica grazie alla rendita e al sostegno che i genitori, commercianti medio-borghesi benestanti, gli hanno sempre fornito.
Proprio in virtù della sua posizione sociale se non agiata, quantomeno serena, Camille Corot poté intraprendere il grand tour, il lungo viaggio nelle città d’interesse culturale dell’Europa continentale intrapreso dai rampolli dell’aristocrazia europea e dagli studenti di arte. Per questi ultimi il grand tour era quasi obbligatorio: lo scopo del viaggio era perfezionare le conoscenze tecniche di disegno e scultura tramite l’osservazione del patrimonio artistico classico presente in Italia, una delle mete più gettonate. Nel 1825, Corot scelse di partire per Roma, città dove la sua maturazione artistica giunse a una svolta decisiva e dove eseguì ben duecento disegni e centocinquanta dipinti in meno di tre anni.
Corot è annoverato tra i più sensibili paesaggisti dell’Ottocento, inserendosi sulla scia dei lavori dei pittori paesaggisti romantici John Constable e William Turner che furono la sua ispirazione a intraprendere questa carriera. Confrontarsi con l’Italia fu fondamentale per elaborare un linguaggio pittorico che non fosse una mera ripetizione di quanto si offriva alla vista. Corot rimase particolarmente affascinato dalla Città eterna e dai suoi dintorni bucolici: le vedute di Narni, Tivoli, dell’Agro Romano sono protagoniste di centinaia di bozzetti e disegni. Tuttavia, il suo interesse era in qualche modo controcorrente: non era tanto la ricchezza imponente delle rovine classiche a incantarlo e a ispirarne il lavoro, come accadeva per la maggior parte degli artisti stranieri che confluivano a Roma per studiare le proporzioni e l’eroismo monumentale dell’arte classica, quanto piuttosto la luce che accarezzava quei luoghi così antichi eppure così vivi.
Scriveva così: “Questo sole diffonde una luce disperante per me; sento tutta l’impotenza della mia tavolozza”. Immersa in questa luce abbacinante, anche la bellezza delle donne italiane catturò l’occhio di Corot, che si dedicava occasionalmente anche alla ritrattistica. La più grande lezione gli derivò non tanto dall’ammirazione dei grandi pittori italiani, quanto piuttosto dal tentativo di rendere con i toni e i colori adatti il calore mediterraneo di quella luce morbida che pervadeva tutto. Per Corot, l’Italia è il sole: è qui che apprende il valore della luce come mezzo per costruire, con il colore, l’immagine stessa. I suoi paesaggi non celebrano la memoria storico-culturale dell’antichità classica, ma il carattere atmosferico di vedute reali, emozionanti nel loro intenso colorismo.
Sul finire del suo primo soggiorno italiano, nel 1828, Corot discese verso Napoli, l’arcipelago Campano e il Vesuvio, dove entrò in contatto con gli esponenti della scuola di Posillipo. Nello stesso anno, il suo tour si concluse con un’ultima tappa a Venezia, dove sostò per breve tempo prima di risalire diretto a Parigi. Tornò in patria con un portfolio artistico immensamente arricchito e sfaccettato: fino al 1834, Corot si servì degli schizzi eseguiti durante il suo viaggio in Italia come base per nuove opere da proporre all’esposizione ufficiale del Salon di Parigi, in modo che incontrassero i gusti classicheggianti della giuria. Tra questi dipinti rimaneggiati secondo canoni neoclassici, ricordiamo Il ponte di Narni (1826): la composizione si basava sul bozzetto di un acquedotto romano, dal quale Corot partì per creare un capriccio pastorale idillico circondato dalla natura lussureggiante. La veduta riscosse un certo successo presso i giudici del Salon, ma secondo alcuni critici già contiene in sé un modo di dosare luce e volumi che prelude all’Impressionismo.
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