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Il 27 gennaio di ogni anno si celebra la giornata mondiale della memoria, in ricordo delle vittime del tremendo olocausto del secolo scorso. Quest’anno Roma organizza per l’occasione una mostra, a denuncia e commemorazione delle vittime
A volte si rende necessario continuare a ricordare; a volte ricordare è semplicemente l’unica cosa che si può fare: è il resto, il residuo di un accaduto irreparabile, per il quale non si può più tornare indietro. E, allora, ciò che rimane è l’opportunità futura di evitare, di eliminare il rischio della ricaduta, perché certe brutture umane non tornino mai più protagoniste della storia. Per questo, il 27 gennaio, nasce il giorno della memoria, non solo perché quel giorno del 1945 venne liberato il campo di concentramento di Auschwitz, ma perché quel buio non va dimenticato, quell’orrore non va taciuto, quel massacro non va ripetuto. Per commemorare le vittime, di quegli episodi tanto assurdi quanto reali; tanto folli quanto minuziosamente studiati.
(Fonte: Focus Junior)
Perché fu esattamente questa, la crudeltà umana, a condannare brutalmente milioni di esseri umani, sulla base di una presunta gerarchia di razze, che vedeva al vertice quella ariana e che poneva il popolo ebraico all’ultimo dei gradini – quando e se incluso nella “piramide” delle etnie, altrimenti letteralmente fuori, escluso dal mondo, dalla storia, per alcuni persino dall’Essere. Qualificando, quel popolo, come non degno d’esistere, secondo una decisione, millantata scientifica, di mano nazifascista.
Questa fu la Shoah: la morte di milioni di persone, senza distinzione di sesso e d’età. Come nel testo Auschwitz di Guccini, in quella tremenda strofa – «Son morto ch’ero bambino, passato per il camino, e adesso sono nel vento» – che dovremmo continuare a ricordare, per non ripetere l’abominino.
Molti di voi si saranno commossi fra le pagine di Se questo è un uomo esordio letterario di Primo Levi, scrittore italiano di origini ebraiche. Molti di voi saranno inorriditi di fronte alle descrizioni delle condizioni (in)umane a cui fu sottoposto, insieme ad altri deportati, nel Campo di Concentramento di Auschwitz.
(Fonte: Vita.it)
E molti di voi, infine, avranno avvertito, nel leggerlo, quel suo sentimento inspiegabile: un connubio di emozioni che, né solo dolore né solo fatica né solo disorientamento, lo stesso Levi faticava ad esprimere.
«Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga […] Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine “campo di annientamento”, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo»
(Se questo è un uomo, P. Levi)
(Fonte: Laboratorio Valsusa)
Così, quest’anno arriva a Roma una particolare mostra: descrizione e storia di tutte le persone arrestate tra il 1943 e il 1944 nel territorio italiano e deportate nel complesso di Auschwitz-Birkenau. Col titolo Dall’Italia a Auschwitz, l’esposizione vuole mettere in mostra le crudeltà di quegli anni, le dignità lese, le atrocità di quei brutali campi di annientamento. A volerla fortemente, a cura di Marcello Pezzetti e Sara Berger, la Fondazione Museo della Shoah, a partire dal 27 gennaio, presso la Casina dei Vallati. Spesso interi blocchi familiari, accompagnati da qualche ebreo straniero che, nella penisola, aveva cercato riparo, prima dell’emanazione fascista della legge razziale, la mostra si apre con un’introduzione ai campi di concentramento, per proseguire con una sala dedicata ai trasporti.
(Fonte: Sempione News)
All’interno, fra immagini, dipinti e disegni, si susseguono i volti delle vittime, i numeri dei deportati dei convogli partiti dal territorio italiano; si mette in luce la specifica sorte degli ebrei, parte più consistente dei perseguitati – ma non unica (insieme a loro anche disabili e omosessuali); e si presentano i meccanismi, le strutture, le macchine della morte. Immancabili, poi, i racconti dei pochi superstiti, dei persecutori e le informazioni sulle evacuazioni finali. Ma a fare di questa mostra una delle più interessanti, mai viste in merito, è la presenza di alcuni contenuti inediti, novità storiografiche, come la scoperta della deportazione di non ebrei: politici contrari al regime e rom – a cui, in tempi non sospetti, già De Andrè aveva dedicato Khorakhané, scritta (nella parte finale, pare) insieme a Giorgio Bazzecchi, cittadino italiano appartenente alla comunità rom harvati, figlio di due deportati nel campo di concentramento di Tossicia, in Abruzzo e nipote di due nonni mai tornati da Auschwitz.
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