“Narciso, la fotografia allo specchio”, una mostra che riflette sul concetto del doppio
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Sotto il mirino dei suoi nemici, non sempre la nostra città potè definirsi “indistruttibile”, subendo spesso gravosi sacchi. In particolare, la storia ne ricorda uno, quello del 455: l’ultimo, per mano dei vandali. Cosa comportò per Roma? E quale fu la causa scatenante?
Casus belli della guerra contro i Vandali, una circostanza, in particolare, scatenò la popolazione barbara contro Roma, e certo non può definirsi altro, oggi, da un capriccio imperiale. Il 16 marzo del 455, Petronio Massimo ordì una congiura per assassinare l’imperatore d’Occidente Valentiano III. Qualche giorno dopo, eletto imperatore con l’appoggio del senato, non solo costrinse la moglie dell’ex Augustus di Roma, Licinia Eudossia, a non onorare la morte del marito ucciso, ma persino a sposarlo, in qualità di Imperatore entrante, contro la sua volontà. Fu questo fatto a far diventare il caso, un caso al di là delle mura romane. Perché l’imperatrice, piuttosto che sottostare ai dettami di quell’uomo e della sua sete di potere, si volse subito a chiedere aiuto a Genserico, re dei Vandali, chiedendo di andarle in soccorso, per salvarla dalla spiacevole situazione.
“E chi te ce manna?”, avrà pensato Genserico. Senza farselo ripetere due volte e profittando dell’evidente debolezza dell’Impero, dunque, il re dei Vandali preparò l’enorme e potente flotta, per salpare da Cartagine, con l’intento di assediare a saccheggiare la città. Annullando pure, con questa mossa improvvisa, il tratto di non belligeranza firmato qualche anno prima con Valentiano.
(Fonte: Storia & Enigmi)
Il 2 giugno del 455, Roma fu presa d’assalto da orde di Vandali incalliti, per la bellezza di quattordici giorni (un’eternità, per i romani d’allora). Persino il papa intervenne a difesa dell’Urbe, implorando di non ucciderne gli abitanti e di non raderne al suolo le strutture. E tuttavia, nonostante la clemenza di Genserico, il popolo germanico fu in grado di razziare qualsiasi cosa: dalle pietre preziose al pane, dall’oro e l’argento alle statue. Il palazzo imperiale fu spogliato di ogni suo bene. I templi (come quello di Giove) furono svuotati di ogni loro oggetto di valore; e migliaia di persone, senza differenze di sesso, di rango o di età, furono, nel migliore dei casi imprigionati, nel peggiore uccisi, come avvenne per lo stesso Petronio. È facile immaginare Licina nell’esclamazione: “aritornace Petrò!”.
Non toccò sorte diversa, però, neanche a lei e le sue due figlie che, al contrario, vennero catturate e portate oltremare. Eudocia fu sbarcata a Cartagine e obbligata, come da consuetudine dell’epoca, a sposare il primogenito di Genserico; Licina e l’altra figlia vennero invece portate a Costantinopoli. Dove Placida, questo il nome della secondogenita, avrebbe sposato il patrizio Anicio Olibrio, per breve tempo Imperatore d’Occidente, poi incalzato da altri due pretendenti, sempre per pochissimi anni.
Nel 475, a un anno da quella che è nota a tutti come la fine del più vasto e incredibile Impero di sempre, l’Impero Romano, solo un altro generale, tale Oreste, riuscì a mettere sul trono l’ultimo regnante: suo figlio. Che – caso vuole – come un fil rouge dall’inizio alla fine, portava su di sé la forza di un celebre nome e simbolo della città: Romolo – con l’aggiunta di Augustolo.
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