Una festa in onore della regina della tavola: la pizza
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Ebbene sì, cari amici romani, oggi è un giorno particolare, di quelli in cui si celebra uno dei piatti più famosi della tradizione culinaria italiana, ma probabilmente anche una delle ricette più buone della cucina romana: la trippa. Conosciamo meglio questo cibo sopraffino, da sempre nel cuore di Roma e dei romani.
Per secoli è stata una delle parti del bovino mangiata dalla maggior parte delle persone delle fasce popolari, chiamata anche il quinto quarto, ovvero quello che rimaneva dalla macellazione della mucca: la trippa. Fino a qualche anno fa, ordinare e mangiare questo piatto sembrava dozzinale, quasi volgare, negli ultimi tempi invece si è riscoperto che questo piatto, al contrario di quanto si è sempre immaginato, è poco grasso e ricco di proteine! Pe’ favve capì quanto già li antichi stavano avanti, la trippa veniva mangiata dai greci e ovviamente dai nostri antenati di Roma. Gli abitanti all’ombra del monte Olimpo erano soliti farla alla brace, mentre gli antichi romani con questa parte di interiora facevano le salsicce. Pochi anni fa è stata realizzata l’ultima ricetta spettacolare con la trippa, dalla chef Cristina Bowerman, che ha visto questa parte di interiora delle mucche come un insieme di celle di un alveare, in cui sono inserite marmellate e puree dolci e salate. Insomma oggi, come già più di duemila anni fa, se sa come magna’ bene, vediamo ora come veniva e viene tutt’ora mangiata nel resto d’Italia.
Ovviamente la trippa nel corso del tempo entrò a far parte delle ricette di un po’ tutte le tradizioni gastronomiche italiane e non solo, così da regione a regione, da città a città, cominciarono a nascere le ricette più fantasiose. Per esempio a Milano la trippa viene chiamata buseca e viene mangiata insieme al pomodoro, pancetta e fagioli bianchi; a Genova invece prende il nome di sbira perché era il pranzo delle guardie della Repubblica di Genova. A Moncalieri, vicino Torino, questo cibo viene addirittura pressato e arrotolato fino a formare un salame da tagliare a fette; in Toscana oltre alla classica ricetta in umido, è mangiata anche come cibo da strada, in mezzo a un panino con il nome di lampredotto. Scendendo ancora lo stivale si arriva a Perugia dove viene gustata insieme alla buccia d’arancia, mentre in Sardegna addirittura viene aromatizzata con lo zafferano. Infine un’altra grande tradizione di cucina della trippa è a Napoli, dove oltre la tradizionale zuppa in umido c’è anche ‘a zuppa ‘e carnacotta, con freselle o pane raffermo, parmigiano e un po’ di pepe.
Mo, che se semo fatti tutto er giro dell’Italia, che avemo visto come l’artri se magnano ‘a trippa, mo je potemo insegnà per bene come se fa. La trippa a Roma infatti è un’istituzione e soprattutto in questo periodo autunnale è un piatto che sopra le tavole si può dire immancabile. Per capire bene come cucinare questa parte di interiora di mucca, non possiamo far altro che affidarci a una delle istituzioni gastronomiche e culinarie di Roma, ‘a Sora Lella, che ci spiega la ricetta così:
Qui ci mettemo la cipolla, poi ce mettemo a’ trippa, dopo che c’avemo messo ‘a trippa ce mettemo un ber pezzo de peperoncino; dopo il peperoncino ce mettemo la carota, poi la menta romana! Che è ‘a morte sua! Poi un po’ de basilico e un po’ de sedano. Ohh! Quando che poi c’avemo messo tutta sta roba, ce mettemo 5 o 6 chiodi di garofano e poi ce mettemo er pecorino, un bel po’ de pecorino. Poi ce mettemo er sale e l’olio e mo’ lo mettemo sur foco! Quando che è tutta bella rosolata, tutta bella bella, ritirata ritirata dall’acqua, perché se sa’ ‘a trippa fa acqua, allora ce buttate giù er vino bianco. Famo evaporà sto vino, quando è bello bello se sente subito er pecorino con il suo bel profumo, e allora ora ce buttate giù i pelati, da soli per dieci minuti senza aggiungece acqua ! […] Quando la vedete che s’è insaporita bene bene, se vede no?! Quanno è fatta?! Siete madri di famiglia no? Sarebbe er colmo! E mo’ ve a’ magnate!
Infine un ultimo aneddoto che lega la trippa indissolubilmente con Roma è il detto nun c’è trippa pe’ gatti. La leggenda vuole sia stato coniato da uno dei primi sindaci della capitale, il mitico Ernesto Nathan, durante la stesura del bilancio comunale. Allora infatti la città capitolina usava sfamare i gatti randagi proprio con la trippa, così che i felini mangiassero i topi all’interno della città. Purtroppo però la voce in bilancio era troppo pesante e così il primo cittadino scelse di alleggerirla cambiando il rancio ai gatti – che chissà se avranno gradito il cambio di menù -, dicendo, nun c’è trippa pe’ li gatti.
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