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L'intervista a Omar Leccesi, il volto de La Villetta


A pochi km da Roma, nella cittadina di Monterotondo, il giovane Omar Leccesi, 27 anni ancora da compiere, è l’appassionato proprietario de La Villetta, insieme al papà Valter e il fratello Iacopo. Noi l’abbiamo intervistato per voi, nel suo ristorante, tra vasche di pesce fresco e bottiglie di Champagne da capogiro. Siete curiosi?

Come nasce La Villetta?

«La Villetta nasce 12 anni fa da un progetto di mio padre, ma io ho cominciato ad occuparmene solo 6 anni fa. La mia famiglia veniva da un’altra tipologia di ristorazione. Sin da bambino, ho vissuto all’interno dell’ambito gastronomico e, questo, mi ha permesso di seguirne le fasi: dal lavoro in una classica trattoria romana, mio padre ha deciso di aprire un ristorante di pesce a Monterotondo. È stata una scommessa, perché in una città come questa, è un rischio dare avvio ad una ristorazione di pesce fresco. All’inizio non eravamo a questo livello e a questa qualità, anzi, quando siamo partiti, sapevamo che si trattava di un azzardo. Lo vedete “il furgone più famoso del web“, nelle stories, carico di pesce fresco?! Quello è un investimento, ogni giorno, ma è l’unico modo per avere una materia prima eccellente, che ci posizioni diversamente, rispetto ai competitors. Per arrivare a quello, e per avere un ritorno, i primi anni abbiamo dovuto tastare, fare un periodo “in sordina” – come si dice -, sotto banco: dovevamo capire se la qualità, che presentavamo, poteva avere davvero un riscontro. Siamo arrivati passo passo ai primi risultati e, li abbiamo raggiunti, soltanto mantenendo le promesse, che via via facevamo: mostravamo la freschezza dei prodotti ogni giorno, l’eccellenza delle materie prime; la gente, venendo qui, si aspettava quello e noi quello, ancora oggi, diamo, cercando di non deludere le aspettative.

Quali sono stati i tuoi studi? Hai avuto esperienze lavorative, prima di questa?

Ho frequentato l’alberghiero di Rieti, col convitto, per cinque anni. Quando sono uscito, ho iniziato a lavorare altrove, facendo stagioni anche fuori dall’Italia. È stando all’estero, e occupandomi di ristoranti altrui, che ho capito che potevo impiegare le mie energie per il ristorante di famiglia. Fuori, mi occupavo di ordini, di menù, di dipendenti: avevo 19 anni, ero un semplice “cuochetto”, ma mi impegnavo anche per la parte economica di quei posti, come le giacenze, gli scarichi, e fino alle 4 di mattina: una cosa che nessuno faceva! Sono sempre stato malato di marketing e ho sempre cercato di approfondire quegli studi. Da piccolissimo, il lunedì – il giorno di riposo di mio padre – io andavo in giro con lui, non per comprare regali all’edicola, ma per andare in banca! A 20 anni mi sono reso conto che stavo dando un contributo molto alto, ma ad aziende di altri! Quindi mi sono detto: “ma sai che te dico? Lo faccio per il mio, di ristorante!”. Così è stato e sono entrato io. Abbiamo cominciato a cambiare qualcosa, come la disposizione della sala. Devo dire che quando mi fossilizzo con una cosa, quando ho un obiettivo lo devo raggiungere, non ci stanno santi! Volevo fare la mostra, tutta quanta a misura, per le casse di pesce, e l’abbiamo fatta, da zero, disegnandola insieme a mio padre e l’architetto. Quindi, ho iniziato a dare un contributo reale alla nostra attività, dando vari spunti: la catalana coi piattoni grandi, i dischi volanti ecc..»

Abbiamo visto che sei molto attivo sui social, come nasce quest’idea?

«Affiancando mio padre nell’attività de La Villetta, vedevo che i social si sviluppavano sempre di più. Inizialmente, col profilo del ristorante, facevo la classica foto e la pubblicavo, inserendo la posizione e i contatti: era la cosa più sbagliata del mondo. Mi accorgevo che, pur mettendo i piatti, o mettendo i video degli scampi vivi, non andava. Ho cominciato a chiedermi dove sbagliavo, cosa poteva funzionare, mi sono messo in discussione e mi sono rimesso sui libri, stavolta di marketing! Insieme, ho iniziato a leggere libri di psicologia umana, per capire il significato dei gesti, per riuscire a fare comunicazione in un certo modo. Lì mi si è aperto un mondo, perché ho iniziato a scoprire come riuscire ad entrare nella testa delle persone, tramite il telefono: esiste un tipo di linguaggio specifico, un modo particolare di armeggiare con le mani, di muovere il corpo e via dicendo. Di pari passo, ho chiuso il profilo de La Villetta, perché “chi segue il profilo di un ristorante? Io lo seguirei? Difficile, perché non riesco ad identificarlo con una persona”. Ho tolto il nome vecchio e ho messo il mio. In qualche modo, ho capito che dovevo metterci la faccia, che la gente ha bisogno di capire chi c’è dietro. La mia famiglia, all’inizio, mi prendeva per pazzo: stavo in cucina e facevo i video! Solo che, piano piano, c’è stata una bella risposta. La ristorazione di solito si vede dalla porta alla sala, nessuno mostra il dietro le quinte! Io i clienti li porto in cucina, gli faccio vedere quello che succede durante un servizio, come è fatto il magazzino di un ristorante. Oggi, la gente comincia a capire di cosa si parla quando si parla di giacenza, per esempio, e io, a modo mio, ho iniziato a trasmettere questa fetta di cultura: questa cosa mi fa davvero piacere. A parte il fatturato incrementato notevolmente, io informo le persone, gli trasmetto una conoscenza e questa è la cosa che più mi aggrada: fare informazione e mostrare, nel piatto, la qualità di cui parlo

Possiamo dire che hai capito una cosa fondamentale, cioè che il mondo social è un mondo fatto di persone e non solo di numeri e profili?

«Si, alle persone interessa la faccia di chi sta dietro al prodotto. Io posso farvi vedere una bottiglia bellissima tutta placcata d’oro: il primo giorno vi attrae, ma dopo tre giorni, il quarto giorno sul mio profilo non ci entrate più! Le persone vogliono vedere la quotidianità, quando ti alzi, quello che fai, qualsiasi cosa. Quanti si chiedono: “ma un ristoratore, nel suo giorno di riposo, che fa? Dove va?”. Indubbiamente, poi, la qualità, che deve essere espressa ai massimi livelli sul social, conta e tutti devono toccarla, già solo guardandola; soprattutto, deve presentarsi qui, a chi viene a mangiare. Sono cosciente che mostrare la qualità è un’arma a doppio taglio, ma lo faccio perché so che sarà nel piatto. Spesso dico: “Ma vi siete mai chiesti, perché io vi faccio vedere tutto il pesce, che mi arriva, e gli altri no?“. Ho sempre inseguito la trasparenza, non nascondendo mai la provenienza dei miei prodotti»

Tu sei lo chef qui, vero?

«Io mi reputo parte della brigata, ma penso di avere un occhio imprenditoriale. Diciamo che, alla fine, mi reputo un imprenditore di ristorazione. Quando ero fuori, mi sono accorto di quanto si pensasse ai numeri. È lì, che ho capito che era meglio alzare la qualità di un posto, fare anche meno coperti, ma alla perfezione. Preferisco fare 100 persone felici, che fare mille persone soddisfatte in maniera discreta! Prima che chef, capi di sala o maître siamo imprenditori e dobbiamo conoscere quel mondo lì. Qualche giorno fa un ragazzo mi ha chiesto: “Omar ma la stella? Ci stai pensando?”. Ho risposto di no. Un ristorante stellato quante volte può vendere il pasto ad una persona? Una ogni tre mesi, perché poi si aspetta cambi il menù (tutte cose super elaborate). Da imprenditore, preferisco vendere lo scampo crudo, spaccato, fresco e buono: è “semplice”, ma te lo posso vendere anche tre volte alla settimana! Devo cercare di vendere il mio prodotto più volte possibili, ovviamente salvo problematiche varie (Covid, difficoltà finanziare ecc..); devo cercare di creare un prodotto che sia vendibile, alla stessa persona, più volte al mese»

Come vi siete comportati durante il Covid e il periodo di lockdown?

«Quando hanno dichiarato la chiusura era un martedì: di notte abbiamo creato il menù; mercoledì era già dal grafico e venerdì eravamo pronti col delivery e l’asporto. Abbiamo fatto circa sei, sette furgoni al giorno: in questo, il social si è rivelato fondamentale – non che io non l’avessi mai creduto, anzi! -. Tanta gente, che all’inizio mi prendeva in giro, durante il lockdown si è resa conto di quanto, invece, fosse necessario il web, per la propria azienda. Io per esempio, muovendomi in anticipo col digitale, facendoci i conti ormai da anni, sono riuscito a crescere»

 

 

Nelle tue stories sei sempre molto onesto e, spesso, sdogani credenze diffuse. Inviti, per esempio, a “bere vecchio”

«Tirare fuori bottiglie particolari è un po’ il mio cavallo di battaglia. Dietro, c’è tantissima ricerca, ma ho scelto di avere una selezione di vini e di Champagne unica. È vero, qualche giorno fa, ho incentivato sui social il “bere vecchio”. Oltre ad essere una mia passione, credo che “bere vecchio”, riuscendo ad apprezzare bottiglie anche poco conosciute, sia un’esperienza irripetibile. Lo Champagne vecchio, secondo me, va spinto, perché dentro quella bottiglia ci sono una storia, un’evoluzione e un sapore incredibili. C’è da dire che spesso mi pongo le domande che ognuno si porrebbe, mi metto nei panni degli altri e rispondo: faccio quello che avrei voluto fosse stato fatto con me. Mi piace far capire alle persone, con le parole, quello che io avrei voluto qualcuno mi facesse capire, tempo fa. Così, mi sono chiesto: ” Riesco a riconoscere uno Champagne vecchio da uno giovane? Che differenza ci può stare?”. Una volta, c’era un tavolata di ragazzi, sono andato e gli ho offerto due bottiglie di Champagne vecchio: sono rimasti estasiati. L’ho fatto perché volevo fargli capire quanto fosse inconfondibile, volevo fargli conoscere quel sapore: non me ne fregava niente di avergliele regalate! In connessione con la mia voglia di informare, spesso, spiego come riconoscere una bottiglia di ottime condizioni, anche se per me è controproducente.
Oggi, spingo molto il “bere vecchio” e per vari motivi: primo, il fatto che quelle bottiglie, mantenute per come le trovo io, sono introvabili; secondo, vorrei trasmettere la mia passione ai ragazzi, pure i più giovani. Come fare per avere un’eccellente bottiglia a prezzi contenuti? Prendo bottiglie non conosciute vecchie, ma di qualità eccelsa e ci metto sopra veramente nulla, solo il costo di tasse e iva. Se non ci fossero quelle spese, addirittura, preferirei andarci a paro, pur di farne assaporare il gusto! Sono investimenti, a guadagno minimo, per avere un domani persone che sappiano bere buono, che ne capiscano qualcosa.

Hai molto questa predisposizione verso i giovani, anche nella tendenza a svecchiare l’idea di ristorante di pesce, sbagliamo?

«Si. Qualche anno fa ho notato un’inversione di tendenza. Vedevo che i ragazzi di Roma e dintorni andavano nei ristoranti di pesce. Mi sono chiesto come fosse possibile. Ho capito che spostando il format, rigirandolo, in un certo senso, era possibile far diventare un ristorante di pesce alla portata dei giovani. Perciò ho inserito il social, insieme ad un servizio più fresco, aggiornato, ma soprattutto più coinvolgente per chi sta seduto. Di solito, in certi ristoranti si sta tutti tesi, qui no. Ho cercato di sviluppare un sentimento di familiarità e di coinvolgimento all’interno della serata: non far sentire le persone un numero»

Quanto conta la tua passione?

«All’inizio, tanto, dopo un po’, però, inizia il raziocinio e lo studio. Solo con la passione è difficile che si arrivi lontano: la passione ti porta a fare bene un piatto, non cento. Se vuoi qualcosa di più grande, devi abbassare un po’ il livello d’attenzione della passione e alzare quello della razionalità. Quest’ultima mi ha fatto studiare il contesto, quello che avevo intorno e mi ha fatto capire dove agire, per riuscire»

Non sei un freddo imprenditore: pensi i numeri, ma nella veste di persone. È questo che ha creato continuità e successo?

«Io sono competitivo sui prezzi, non perché non voglio guadagnare, è chiaro è il mio lavoro. Ma se posso farti mangiare una tipologia di pesce di altissima qualità, ad un prezzo non troppo esagerato, sono contento: lo mangi oggi, non spendi una fortuna, risparmi e dici “oh sai che c’è, tra due settimane ci posso tornare!”. Quindi, hai mangiato al top, bevuto di qualità, sei stato in un certo modo educato ad un gusto diverso, e torni»

Il futuro de La Villetta?

«Non posso dire dove, ma abbiamo in progetto di aprire un’altra Villetta in un’altra luogo. Posso solo dire che non sarà in Italia…»

C’è un motto che ti ripeti spesso?

«Mi ricordo sempre da dove sono partito e quando, soprattutto. Ho iniziato parlando a poche persone, avevo poco riscontro. Oggi, invece, mi alzo e la gente sta lì, in qualche modo, mi aspetta. E mi piace, amo quello che faccio»

Piatto più gettonato?

«Il disco volante, sicuramente»

Visto il periodo che stiamo vivendo e la promozione del tuo sold out, nonostante la tua sia una fascia medio-alta, che tipo di suggerimento daresti ai tuoi colleghi, che oggi si lamentano?

«Prima di iniziare a crederci, è necessario credere in un progetto diverso: reinventarsi. Se oggi hai qualcosa che non funziona, devi cambiare. Se oggi sei costretto a chiudere alle 18, devi trovare una soluzione accattivante, per far in modo di funzionare lo stesso: vedere il problema come un’opportunità di crescita e di cambiamento! Poi, essere trasparenti, usare i social e tutto il mondo web con correttezza. Non demordere, ma credendo in un progetto nuovo, non nel vecchio, perché quello l’hai già perso. Non si possono continuare a giocare schedine a raddoppio, per recuperare la prima schedina andata persa! Bisogna cambiare mentalità, utilizzare tutti i mezzi a disposizione e, soprattutto, chiedere aiuto. Chiedere una mano non è mai negativo, anzi, è umile farsi dire, da persone esterne, cosa ne pensano. Chiami un amico, lo fai mangiare e poi gli chiedi dove interverrebbe. Solo l’occhio esterno può darti giudizi oggettivi»

Per Omar Leccesi, cos’è Roma?

«Roma è la passeggiata di notte, fra i vicoli e i sampietrini. Roma per me è il Colosseo: quando arrivi, ci passi con la macchina e lo vedi illuminato. Sono le ZTL disattive che ti permettono, la sera, di entrare al centro storico, nel cuore della città, come Campo de’ Fiori. Roma per me è eterna, nel senso che ti strappa sempre il cuore, ogni volta»