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Come ogni modo di dire romanesco, anche il “Nun sapè a chi dà li resti” ha la sua storia. Ma cosa significa in italiano?

Sono tanti i modi in cui si racconta di Roma e la sua storia. Perfino i modi di dire sono in grado di narrare degli aneddoti sulla Capitale e sui suoi abitanti.
Basta pensare al “senti che Gianna” e alla sua storia. In italiano questo modo di dire indica l’arrivo di un forte soffio di vento. Pare però che all’origine di questa simpatica espressione ci sia una signora che si chiamava Gianna e che apriva continuamente le finestre di casa sua per far passare l’aria.
Perfino durante le stagioni più fredde le finestre rimanevano aperte e di conseguenza il vento che soffiava era davvero forte. Ecco quindi come nasce il “senti che Gianna”.

Anche il modo di dire “Nun sapè a chi dà li resti” ha la sua storia. Sembra che questa espressione nasca nelle macellerie romane.
C’era un tempo in cui i macellai sceglievano i tagli di carne migliori per i nobili e consideravano come scarti le interiora, che oggi sono dei capisaldi della cucina italiana e romanesca.
Incaricavano spesso un ragazzo affinchè buttasse via questi scarti, che erano tanti e che venivano trasportati su un carretto. Sembra però che il povero ragazzo, mentre passava con questo carro, veniva spesso accerchiato dalla povera gente, che si riuniva intorno a lui perché voleva prendere le interiora.
Si ritrovava quindi spesso in difficoltà e di conseguenza non sapeva proprio “a chi dà li resti”.
Ecco quindi che nasce questa simpatica espressione, che in italiano corretto indica qualcuno che si trova in una situazione esasperata, ma che soprattutto non sa come uscirne fuori.

Un tempo quindi i macellai utilizzavano solamente alcuni tagli delle carni e li servivano ai nobili. Alla gente povera venivano invece offerti gli scarti, ovvero le interiora, che oggi sono considerate una primizia e qualcosa di pregiato.
Tempo fa la gente povera invece acquistava le interiora perché avevano un prezzo minore rispetto alle altre carni, ed erano degli alimenti che riempivano lo stomaco e permettevano quindi alle persone di sopravvivere.
Preparavano così dei piatti semplici, a base di organi come la lingua, la trippa, il cuore e i polmoni. Davano così vita ai piatti che oggi appartengono alla tradizione romanesca, come il quinto quarto, la coratella e la trippa.
Per loro era qualcosa di buono ma povero, ma non sapevano che avrebbero dato vita a qualcosa che poi sarebbe diventato parte della tradizione.

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