“Narciso, la fotografia allo specchio”, una mostra che riflette sul concetto del doppio
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Le sue fasi, le sue tele, le sue visioni del mondo erano colorate: Pablo Picasso poteva considerarsi un arlecchino della pittura, come lo definiva la mostra romana al Vittoriano del 2009. Ma quante volte l’artista spagnolo soggiornò a Roma e in cosa la capitale gli fu fondamentale?
Ricucire l’arte di Picasso non è facile, per chi tenta di farlo. Più si va a fondo, più le parti traboccano, nel tentativo di contenerlo. Picasso è stato uno strappo, nella storia delle rappresentazioni pittorico-artistiche. Una lacerazione troppo difficile da rammendare; un big bang: la nascita di un prima e di un dopo, Picasso. Connubio di eccentricità, ricerca ed insaziabilità, l’ingrediente principale di questo artista, tra i più influenti del XX secolo, poteva riassumersi tutto nel suo istinto. Un fiuto fine abile a far corrispondere i suoi pensieri alle sue creazioni. Non a caso, quasi fosse la celebrazione al suo estro, una volta affermò:
«Tutte le volte che ho avuto qualcosa da dire l’ho detto nella maniera che sentivo essere quella buona. Ciò non implica né evoluzione né progresso, ma un accordo fra l’idea che si desidera esprimere e i mezzi per realizzarla».
Per questo, l’arte di Picasso non si è mai fermata: perché se i suoi pensieri cambiavano, anche il suo modo di metterli su tela cambiava, secondo una speciale connessione pratico-teorica che vedeva il compiersi dell’azione di pari passo al sorgere delle sue idee. Così, dalla corrente del post impressionismo e dall’interesse per Renoir o Degas, Picasso passava velocemente al simbolismo e alle deformazioni del suo periodo blu. Approdava, quindi, al periodo rosa e alle prime apparizioni di Arlecchino, soggetto dei suoi dipinti e misura di un suo costante processo d’identificazione; per poi muoversi ancora: stavolta, verso l’arte africana, libera e senza condizionamenti sociali e, infine, raggiungere il cubismo, in due diverse fasi. La prima, il cubismo analitico, le prime forme sperimentali de Les Demoiselles d’Avignon;
(Fonte: Cultura in rete)
la seconda, il cubismo sintetico, i collage, il papier collé. Composizioni che privilegiavano visioni poli-oculari di un singolo oggetto, mettendone in luce ogni prospettiva spaziale; opere che davano mostra del suo nuovo interesse per la forma semplificata: ché è il tratto puro a rivelare la struttura reale delle cose, la loro verità, la loro riconoscibilità concettuale.
(Fonte: Millefogli)
Quando nel 1917 Picasso giungeva finalmente a Roma, con l’incarico di realizzare il sipario, le scene e i costumi del balletto Parade di Diaghilev, cominciava a soffiare un nuovo vento di cambiamento, per l’artista. La rotta creativa dello spagnolo si spingeva ancora una volta oltre, e il realismo più schietto si mischiava al cubismo. Ne è un esempio L’Italiana, dipinto dedicato alle fioraie di Piazza di Spagna.
(Fonte: Pinterest)
Le vestigia romane lo impressionavano, quasi a stordirlo, ed era questa la causa prima della nascita di un nuovo bisogno: la messa a punto di un ennesimo linguaggio. Le sue opere diventavano all’improvviso imponenti, un po’ come gli antichi monumenti romani che visitava: “la maschia realtà di Roma che non abbellisce“, come amava definirla. Le figure, ispirate all’arte classica e massiccia dell’antica Roma, diventavano dunque solide, quasi statuarie. La figuratività, ora, si imponeva a Pablo Picasso, senza alcuna alternativa. Più tardi avrebbe incontrato il surrealismo di Breton e, vent’anni dopo il suo soggiorno nella capitale, all’Esposizione Mondiale di Parigi, avrebbe esposto, nel padiglione dedicato alla Spagna, il suo famosissimo Guernica. Probabilmente, la sua opera più celebre. Sicuramente, una delle più simboliche di tutto il Novecento.
(Fonte: Analisi Dell’Opera)
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