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Parigino doc – nato nel 1905 e morto nel 1980 nella Ville Lumière –, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1946 per la sua intensa attività di scrittore, drammaturgo e romanziere, personalità di caratura filosofica fondamentale per lo sviluppo della corrente dell’esistenzialismo negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, non tutti sanno che nel 1951 soggiornò a Roma per una vacanza di fervido studio e attività politica. Di chi stiamo parlando? Ma di Jean-Paul Sartre, ovviamente!
È grazie a un libro postumo che riusciamo a ricostruire i passi che Sartre ha mosso sui sampietrini della Città Eterna: pubblicato per i lettori italiani per Il Saggiatore nel 2016, La regina di Albemarle o l’ultimo turista è un taccuino che Jean-Paul Sartre ha tenuto durante il suo percorso in Italia, e rimaneggiato e curato per la nuova edizione dalla figlia adottiva del filosofo, Arlette Elkaïm Sartre. L’ultimo turista del sottotitolo è lo stesso Sartre, che si avventura a fine stagione per un’Italia sventrata dai postumi della Seconda guerra mondiale e ancora lontana dal miracolo economico degli anni Sessanta. È, infatti, solo il 1951, e il filosofo, «con le mani in tasca e della carta bianca in valigia», approda in una Napoli soffocante, piena di scheletri di edifici bombardati ma brulicanti di umanità, con i panni stesi che legano tra loro i balconi diroccati. Dopo la parentesi partenopea, il francese si addentra nel cuore di Capri e poi su, fino a Roma.

Il mite autunno romano Sartre lo trascorre come ospite di Carlo Levi a palazzo Altieri, dove l’autore di Cristo si è fermato a Eboli risiedeva – e dove, più tardi, abitò anche la stella del cinema Anna Magnani, prima che il palazzo divenisse la sede delle scuole medie inferiori del Liceo Visconti, guadagnandosi il soprannome, con il quale è noto oggi, di “Viscontino”.
Delle cene a base di fritti dalla signora Andreina dalle parti di Campo de’ fiori, delle visite ai Fori Imperiali e al Colosseo, delle serate trascorse insieme agli amici del Partito Comunista Italiano, a registi, scrittori, attivisti e a tutta l’élite culturale capitolina non v’è traccia nelle note di Sartre: su fogli rabberciati e taccuini, il filosofo segna impressioni decadenti sull’attività del turismo, un «fiore del male» che «parte dall’idea che la morte è una perdita secca… La morte, l’oblio, le pene d’amor perdute, le occasioni mancate, ecco il pane quotidiano del turista». Roma, in particolare, gli appare deserta e quasi spettrale mentre la osserva dai caffè in piazza della Rotonda, dove siede a scrivere sin dalle prime ore del mattino. L’opposto di Venezia, che definisce come una allegra “Amsterdam del Sud”, ultima tappa del suo itinerario di viaggio in bassa stagione. Su via Veneto, osservata dai finestrini del taxi, Sartre appunta: «la via degli stranieri ricchi […]che si nascondono negli alberghi». E, ancora, vagheggia di intervenire sulle Terme di Diocleziano, che sono «da abbattere, perché quelle di Caracalla son meglio conservate».

Insomma, il giudizio di Sartre sulla capitale d’Italia sembra piuttosto cupo e poco romantico, e il suo soggiorno non è certo nel solco di altri famosissimi viaggi in Italia – quelli dei Grand Tour di Goethe e Stendhal, estasiati dalla grandezza dell’Urbe a cavallo tra Settecento e Ottocento. Eppure, il grande amore che il filosofo nutriva per il Belpaese emerge tutto da brevi, lapidarie annotazioni, prese proprio durante il suo viaggio del ‘51. Con la classicità che rivive in ogni pietra, in ogni colonna dei resti archeologici, Roma (e l’Italia intera) impedisce al passato di morire per tenerla in schiavitù: e così, l’antichità «ne ha guadagnato quest’eternità subdola, e il potere di asservirci a sua volta». Gli italiani del Dopoguerra dovrebbero preoccuparsi di sfruttare il potere che ha la classicità di avvincere il visitatore o, come scrive Sartre, «Il problema n.1 per gli italiani è la salvezza dell’industria nazionale. Il turismo».
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