C’hai fatto scrive’ che nun escludevi er ritorno sulla lapide, e noi t’aspettamo, a braccia aperte! Perché chi più de te, Califa’, può rappresentare un simbolo di romanità?
“Cantami O’ musa del romano Califfo”
Nessuno ce sta che ce po’ consola’ stasera e pure noi, come in Roma Nuda, c’attaccamo a sta città, Califa’, soprattutto oggi. Oggi che la tua assenza fa più male, perché sarebbero stati 82 anni (te li saresti portati da signore, come hai sempre fatto, siamo sicuri!) e avremmo voluto farti soffiare su quelle candeline, ma non possiamo, costretti ad accettare la precarietà di una vita che, come scrivevi tu, ha sempre il «conto già pagato».
Sei come quei simboli eterni di Roma che si fanno fatica a dimenticare, perciò – non ce ne volere, ovunque tu sia – questa nostalgia e questa malinconia, perché sei stato sei e resterai uno dei più degni rappresentati di Roma e della romanità. Chi, meglio di te e della tua particolare eleganza cruda, vera e onesta, ha saputo descrivere i dettagli, i caratteri e le sfumature di quella città “curiosa come una portiera”? Quella tua Roma che hai contemporaneamente bacchettato, in Mezza Roma, e ammirato con la stessa forza, la stessa irriverenza, la stessa passione; e che, forte del dialetto romanesco, non hai mai smesso di portare in alto.
Roma sulla quale hai camminato, hai sofferto, hai pianto: Roma che hai cercato passo passo di descrivere, fin dentro la sua essenza, attento a non tralasciarne mai nulla. Roma, la stessa che t’ha sempre corrisposto, che non t’ha mai lasciato solo, non t’ha mai abbandonato e non lo fa neanche ora, che (sembra) non sei qui e, invece, resti indelebile nel cuore di ognuno, soprattutto nel cuore di lei, Roma, l’unica donna che non hai mai tradito e, forse, l’unica che hai davvero, sempre, amato.
Tu, che diventasti grande in Un tempo piccolo, ingannasti il dolore con del vino rosso, dipingesti l’anima su tela anonima e giocasti i ricordi, provando il rischio di rinascere sotto le stelle, sei riuscito a fare della poesia il tuo modo di vivere, la tua scelta di vita. Una vita “veloce”, come dicevi tu, “buio e luna piena”, che vivevi alla giornata per quello che dava, tanto: “mi basta la mia libertà!”. Perciò noi, fortunati eredi delle tue meravigliose parole, vogliamo provare a festeggiarti, rendendo omaggio a l’uomo e l’artista Califano.
La carriera di Franco Califano
La fragilità e la sensibilità, spesso celate dal timbro graffiante e dalla sfrontatezza dei modi, sono le tracce indelebili di alcune delle più belle canzoni di Franco Califano. Il cantautore romano sapeva parlare di sentimenti meglio di chiunque altro e non è un caso abbia scritto per artisti come Mia Martini (Minuetto e La nevicata del ’56), Ornella Vanoni (La musica è finita e Una ragione di più), Bruno Martino (E la chiamano estate), Fred Bongusto (Questo nostro grande amore) e Mina (Un’estate fa e non solo). Per tutti “Il Califfo”, dai versi tanto taglienti quanto profondi, è riuscito a conquistarsi un posto di primo piano nella storia della canzone italiana e della canzone dialettale romanesca, portando sempre in alto il nome della sua bella città, senza rinnegarla mai (neanche nel modo di parlare).
Califano riusciva a mostrare, nei suoi testi, ogni aspetto, dal più superficiale al più remoto. Se da molti è ricordato, come l’eretico solitario di Tutto il resto è noia o La mia Libertà, l’autore romano può contare all’attivo più di mille canzoni, degne del più autentico, sfacciato e spesso satirico esistenzialismo, nonché la pubblicazione di oltre 30 album. Definito il “Prévert di Trastevere“, Franco Califano si distinse sempre, oltre che per il suo vissuto eccentrico, sregolato e piuttosto bohémienne, per il suo stile musicale inconfondibile e quella sua spiccata abilità nel saper esprimere ogni idea, anche la più complessa, con ineguagliabile spontaneità, oscillando fra poeta maledetto e playboy. Non era semplicemente cantare, il suo, ma era raccontare: dall’inconfondibile voce roca, quasi trascinata sulle note con naturalezza, il Maestro sapeva incantare romani e non.
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