Le Scuderie del Quirinale presentano “Barocco Globale. Il mondo a Roma nel secolo di Bernini”
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Se si considera il misero destino di gran parte dei templi e degli edifici monumentali dell’antica Roma, viene da chiedersi, come mai il Pantheon sia riuscito ad arrivare sostanzialmente integro fino a noi? La risposta sta tutta nelle gigantesche colonne di marmo e nei muri di mattoni spessi oltre sette metri che nel medioevo scoraggiarono ogni tentativo di spoliazione o abbattimento – come accadde a gran parte di ciò che restava della Roma Imperiale – a favore di una trasformazione in luogo di culto cristiano.
Il Pantheon (letteralmente “a tutti gli dèi) fu edificato sul Campo Marzio tra il 25 e il 27 a.C. da Marco Vipsanio Agrippa, genero dell’imperatore Augusto, probabilmente come luogo destinato al culto di Marte e Venere, protettori della famiglia Giulia. Era costruito in blocchi di travertino rivestiti da lastre di marmo e aveva pianta rettangolare. Nell’80 d.C. fu danneggiato da un incendio e Domiziano lo restaurò alla forma originale. Dopo un secondo incendio nel 110 venne riedificato da Traiano in forma circolare, probabilmente su progetto di Apollodoro di Damasco. Un ulteriore incendio del 121 offrì l’occasione ad Adriano per provvedere non solo a una pressoché totale ricostruzione ma anche a un diverso orientamento e a un sostanziale ampliamento che includeva un ampio cortile porticato (l’attuale Piazza della Rotonda). Per omaggiare il costruttore del precedente edificio, Adriano fece porre l’iscrizione che ancora oggi si legge sul frontone “Marco Agrippa, figlio di Lucio, console per la terza volta, edificò”.
Il Pantheon (detto anche La Rotonda) è l’unico tempio dell’antica Roma sopravvissuto quasi intatto come edificio di culto, prima pagano e poi cristiano. Non solo la pianta generale è la stessa voluta da Adriano ma anche la cupola (una semisfera perfetta di 43,3 metri di diametro e 5000 tonnellate di peso, ancora oggi la più grande al mondo in muratura portante), il pronao (portico) con le sue 16 colonne di granito di 13 metri provenienti dalla cava egiziana di Mons Claudianus, fino all’enorme doppio portale in bronzo (4,45 x 7,53) dal peso di 17 tonnellate.
Con la cristianizzazione dell’Impero, il monumento cadde nell’oblio fino al 609, quando l’Imperatore di Bisanzio lo donò a Papa Bonifacio IV convertendolo in chiesa; fu consacrato come Sancta Maria ad Martyres inumandovi, si dice, 28 carri di reliquie di martiri raccolti nelle catacombe e nei sepolcreti della città. Ciò non impedì a un altro imperatore bizantino, Costantino Eraclio, di asportarne dopo pochi anni le tegole in bronzo dorato che coprivano la cupola e che furono sostituite con lastre di piombo solo nel 773 da Papa Gregorio III.
Tra la fine del 1300 e gli inizi del 1400 il tempio fu trasformato in fortezza. All’interno del porticato e addossate alle mura perimetrali vennero edificate decine di casupole e abituri mentre la piazza antistante si trasformò in una discarica di rovine di antichi edifici, la cui altezza superava la base delle colonne. Papa Martino V (Colonna), nel 1423 provvide a una drastica pulizia, fece rimuovere tutte le macerie, demolì molte costruzioni e rinnovò la copertura in piombo della cupola.
Tra le tante ingiurie medievali sul Pantheon – di volta in volta profanato, trasformato in fortilizio, in mercato o in discarica – merita ricordare la duecentesca costruzione di un insignificante campanile romanico sopra il pronao di fronte alla cupola. Più tardi, nel 1625, Papa Urbano VIII (Maffeo Barberini) smantellò quel campanile, non tanto per ridare l’antica dignità al tempio, quanto per strappare le antiche travi di bronzo che sorreggevano il tetto del pronao. Al popolo insorto contro quella decisione fu spiegato che il metallo era destinato all’erezione del grande Baldacchino a cui stava lavorando Gian Lorenzo Bernini nella Basilica di San Pietro ma la contabilità vaticana ha dimostrato che quel bronzo fu fuso per costruire almeno 80 cannoni di Castel Sant’Angelo e che quello destinato a San Pietro proveniva da Venezia. Fu allora che sulla statua di Pasquino apparve affissa la celebre frase: “Quod non fecerunt barbari Barbarini fecerunt” (Quello che non fecero i barbari, fecero i Barberini). Non pago di questa spoliazione, Papa Barberini incaricò lo stesso Bernini di costruire non uno ma due campanili in stile barocco tra il pronao e la rotonda. Fino alla loro demolizione, avvenuta nel 1883, i campanili furono chiamati dal popolo “le orecchie d’asino di Bernini”.
Nonostante i vari interventi di demolizione delle case addossate alla Rotonda, fin quasi all’unità d’Italia i cronisti e gli incisori ci consegnano l’immagine di Piazza della Rotonda e del Pantheon come un luogo senza fascino, ingombro di bancarelle, carretti, tendoni da mercato, friggitorie e macellerie. Strutture di ogni tipo si affastellavano fin dentro il porticato del tempio, occupato da baracche maleodoranti che i canonici della Basilica di Santa Maria ad Martyres affittavano “a giornata” per qualsiasi commercio e in cui i venditori di pesce si mescolavano a quelli di candele e articoli sacri.
Di questo caos, già lamentato secoli prima da Marziale, non ne poté più nemmeno Papa Pio VII che nel 1823 decise di porre fino a quello scempio sociale ed estetico liberando la piazza dalle bancarelle e dalle taverne, regno di ubriaconi e delinquenti che infastidivano tanto i romani quanto i ricchi turisti del Grand-Tour. Il suo editto di sgombero fu così efficace e radicale da essere ricordato in una targa che ancora oggi campeggia, guarda caso, sul muro di… un fast-food in faccia al Pantheon:
“PAPA PIO VII NEL XXIII ANNO DEL SUO REGNO A MEZZO DI UN’ASSAI PROVVIDA DEMOLIZIONE RIVENDICÒ DALL’ODIOSA BRUTTEZZA L’AREA DAVANTI AL PANTHEON DI M. AGRIPPA OCCUPATA DA IGNOBILI TAVERNE E ORDINÒ CHE LA VISUALE FOSSE LASCIATA LIBERA IN LUOGO APERTO”
Sergio Grasso
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