Il “beccarsi”, un modo alternativo al classico “incontrarsi”
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Si chiamava Teriaca ed era in grado di combattere innumerevoli mali. Alcuni lo definirono il “polifarmaco” più antico del mondo. Ma quali erano i suoi benefici e come arrivò a Roma?
Ci fu un re, tanti anni fa, spaventato dalla possibilità, tutt’altro che remota, di morire avvelenato. Il suo nome era Mitridate, re del Ponto. Grande appassionato di medicina, fu grazie a lui e al suo medico Crateva che venne messa a punto la creazione di un potente farmaco, in grado di proteggere il corpo umano da ogni sorta di avvelenamento. Si chiamava Mitriato, o Mitridatis theriaca. Secondo antiche fonti romane, lo stesso Mitridate era solito assumerne qualche goccia ogni giorno, nonostante l’uso prolungato di questa miscela potesse provocarne l’assuefazione (di qui, la nascita del termine mitridatismo). Fu per questa ragione, d’altra parte, che secondo alcuni storici, per non soccombere alle legioni romane di Pompeo, quando invasero il Ponto, il re non bevve la sua miscela, ma preferì impugnare la spada. Una scelta che, tuttavia, non bastò, perché le sue milizie vennero sconfitte e, con loro, venne trafugata la ricetta segreta del farmaco.
(Fonte: Vesuvio Live)
Tradotto in lingua latina, il prontuario farmaceutico del re, giunse così a Roma. Di quì, ci vollero circa cento anni per la realizzazione di una nuova mistura, non senza qualche modifica. Stavolta toccò al medico Andromaco rimettere mano agli ingredienti; dei quali descrisse virtù e composizione, in un poema di oltre centosettanta versi dedicato al suo Imperatore, Nerone. Per portare a termine la nuova miscela, tra le 57 sostanze, venne aggiunta la carne di vipera, rigorosamente quella di un esemplare maschio ucciso al primo risveglio dopo il letargo invernale, secondo un noto principio dell’epoca.
(Fonte: Aispes)
Il simila similibus, ovvero il concetto secondo il quale ciò che generava il male (la vipera e il suo veleno) poteva anche curarlo. In questo modo, l’antidoto non sarebbe stato efficace solo per veleni in provetta, ma anche per avvelenamenti da morsi di altri animali. Come annotato nella preparazione di Andromaco, si mozzavano testa e coda alla serpe, quattro dita sotto l’attaccatura del capo, in modo tale da scartare la zona delle ghiandole velenose e si mescolava «in caldaia capacissima di rame stagnato sopra debol fuoco, agitando incessantemente con spatola di legno». La formula che ne derivava era così forte che persino a Galeno, uno dei dottori più importanti dell’antichità, non passò inosservata, prescrivendola all’Imperatore Marco Aurelio, poiché tranquilla, cioè efficace contro ogni tipo di intossicazione.
La storia della Teriaca, naturalmente, non si concluse con la fine dell’Impero, ma fu lunga e prosperosa. Il farmaco conobbe profonda fama sino alle soglie del XX secolo (l’ultimo lotto fu distribuito nel 1906)! Considerato il principe dei medicinali, già nel 1500 dagli stessi farmacisti e alchimisti dell’epoca, divenne una delle principali fonti di reddito degli speziali italiani. Figure, queste, che a partire dal XVI secolo si sviluppano sotto una nuova veste, diversa da quella dei predecessori, come speziali-chimici.
(Fonte: Vesuvio Live)
Napoli, Bologna, Venezia e Roma: questi i luoghi con la concentrazione maggiore di “spezierie”. Una di queste ancora esiste ed è annessa al convento dei Carmelitani Scalzi di Santa Maria della Scala in Trastevere. Quartiere a cui, tra l’altro, si deve la diffusione di questa leggenda. Nel corso del tempo, poi, la Teriaca divenne la panacea di tutti i mali. Non guariva più solo dal veleno, ma dalla tosse, dai dolori, dall’insonnia, dalle infiammazioni, dalle febbri, dalle emicranie, addirittura dalla lebbra e dalla peste. Per questo motivo, andò sempre più qualificandosi sotto l’accezione di “polifarmaco“, un antidoto utile a risolvere una quantità indefinibile di disturbi.
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