“Chi tte fa più de mamma, o tte finge o tt’inganna”, un omaggio alle mamme che fa da lezione di vita
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“Come hai detto, scusa?” Il turista disattento potrebbe facilmente attirarsi il turpiloquio degli autoctoni romani in innumerevoli occasioni: una certa goffaggine nel guidare l’auto, dovuta magari alla poca dimestichezza con le strade di Roma, è forse il momento emblematico e propizio al manifestarsi di una pioggia di insulti in romanesco. Su tutti, l’insulto principe: “Li mortacci tua!”
Contrazione di “l’anima de li mortacci tua”, il significato è abbastanza chiaro a chiunque, grazie alla diffusione mediatica di cui questa classica imprecazione romanesca ha goduto: è un anatema che significa letteralmente “i tuoi (spregevoli) defunti”. Lo stesso atto di nominare i defunti di un’altra persona è, infatti, sufficiente a maledirli ed esplica il valore fortemente spregiativo dell’espressione: si rievocano negativamente i defunti, disturbandone il “sonno”, e facendo illazioni sulla loro rispettabilità con lo scopo di offenderne la progenie, ovvero colui che viene insultato. Attenzione: al plurale, diventa “li mortacci vostra”.
(Fonte: Corriere Roma)
Naturalmente, l’uso comune come esclamazione scherzosa o di sorpresa, slegata quindi dal riferimento a un singolo o a un gruppo di persone, ha fatto sì che nascessero moltissime varianti, riferibili anche a oggetti inanimati. D’altronde, quale romano DOC non insulterebbe gli antenati dello spigolo della porta contro cui sbatte il mignolino del piede? L’uso estensivo dell’insulto ha permesso che assumesse tantissimi significati differenti, che variano a seconda di chi e con che stato d’animo lo pronuncia: di per sé, quindi, “li mortacci tua” si svuota di senso e può divenire un rafforzativo molto colorito alle parole che seguono all’invettiva. Tant’è vero che può essere rivolta anche a sé stessi: “Li mortacci mia, quant’ho magnato!”
Proprio così. Se è nei sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli, poeta della romanità plebea, che “li mortacci tua” ricorre un gran numero di volte – costituendo quindi tra le più pregevoli testimonianze scritte dell’espressione –, è però solo con l’avvento del sonoro sul grande schermo che l’insulto valica i confini laziali e inizia a espandersi e a essere adottato, anche fuori contesto: tanto che, nell’uso diffuso, l’espressione è ormai un equivalente del più blando “mannaggia a te”. Ma torniamo al cinema.
(Fonte: The roman Post)
I grandi registi del cinema neorealista del Secondo dopoguerra, incentrato sulla trasposizione sugli schermi della realtà, preferivano spesso prendere attori dalla strada e mantenersi fedeli in tutto e per tutto ai fatti nel riprendere la difficile quotidianità degli italiani degli anni Quaranta e Cinquanta: anche le più volgari espressioni era riportate senza filtri, e “l’anima de li mortacci tua” era spesso una di questa, poiché, lo ricordiamo, la scuola romana fu indiscussa protagonista del boom cinematografico nazionale. È così che l’espressione venne sdoganata e iniziò a diffondersi per tutto il Belpaese.
Una breve carrellata di analoghi regionali a “li mortacci tua”: in Campania, è “chi t’è mmuort”, molto simili al calabrese “chi t’è mmuartu” o anche “i miglij morta toj”, e al pugliese “li murte tuue” o “chi t’è mmurte”. In Veneto, infine, si intima a chi si becca l’insulto: “va a remengo ti e i to’ morti”, spesso abbreviato in “ti e i to’ morti”.
(Fonte: Roma Sparita)
“Li mortacci tua”, come abbiamo visto, è già una contrazione di un’espressione più lunga, ma questo non ha impedito ai romani di accorciarla ulteriormente in “Tacci tua”, “Cci tua” e “Alimortè”. Variante antica è “li mortacci stracci”, che sta a indicare l’umile mestiere scomparso degli “stracciaroli”, che, fino agli anni Cinquanta, giravano per Roma col carretto in cerca di abiti smessi da rivendere a pochi spicci ai grossi commercianti che ne avrebbero riutilizzato i tessuti. A volte, all’imprecazione si aggiunge “de tu nonno in cariola”: la storia dietro quest’allocuzione va ricercata nel sovraffollamento dell’Ospedale di Santo Spirito in Saxia, che costringeva ad aggiungere altri letti al centro della corsia, chiamati “cariole”, dove si abbandonavano i pazienti più miserevoli.
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