“Il tempo del futurismo”, la mostra che si interroga sul rapporto tra arte e scienza
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Se dovessimo definire il secolo scorso, partiremmo sicuramente dai maggiori episodi storici che l’hanno caratterizzato: le due guerre mondiali. In particolare agli inizi della seconda, si diffusero in tutta Italia i cosiddetti “orti di guerra”. Di cosa si trattava?
A partire dal 1940, cominciò ad essere promossa in tutta Italia un’iniziativa utile a contrastare la grave crisi alimentare che si stava ampliando a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Si tratta di quelli che il regime fascista definisce “orti di guerra“: terreni coltivati in aree urbane, non solo all’interno di qualche giardino pubblico.
(Fonte: Archivio Luce – Istituto Luce)
Dall’ufficio propaganda del PNF viene emanato un documento in cui si dichiara che «per dare un contributo notevole alla campagna alimentare e alle iniziative autarchiche del paese», il regime decide di trasformare i giardini pubblici e i parchi delle grandi città in aree coltivabili dove piantare soprattutto grano, orzo, legumi, patate e tutti «quegli ortaggi che nelle contingenze attuali possono dare un apporto considerevole di nutrimento in parziale sostituzione di quanto, per varie cause, più scarseggia per la popolazione civile: la carne».
(Fonte: miraorti)
A Roma, in quegli anni, gli spazi non mancano e qualcuno decide di sfruttare persino le sponde del Tevere, aree piuttosto fertili per via della vicinanza al corso d’acqua.
Ad occuparsi di questi appezzamenti di terreno sono le stesse famiglie romane, o le giovani organizzazioni del PNF. A volte gli orti sono di grandi dimensioni, come quelli nei pressi dei Fori Imperiali; a volte sono talmente piccoli, e coltivati in luoghi così stravaganti che a pensarci ci si chiede davvero come abbiano fatto o come siano potuti arrivare a soluzioni simili.
(Fonte: Comunità Olivetti Roma)
In molte occasioni, i cittadini romani, sprovvisti di un parco vicino o di una zona adeguata allo scopo, arrivano a coltivare le aiuole sotto casa, i terrazzi privati (per chi ne possiede uno), piccole cassette di legno e vasche da bagno!
Una volta pronto il raccolto, poi, ci si dirige tutti nella piazza principale della città. È lì che avviene la trebbiatura, come una vera manifestazione del regime, aperta a migliaia di spettatori. I covoni sono ricoperti di bandiere tricolori, vessilli del partito e benedetti, per l’occasione, da vescovi e cardinali (vedi i Patti Lateranensi del ’29).
Intorno a questa disposizione, a conti fatti sprovvista di una vera e propria programmazione, risuona come per ogni scelta dell’epoca un’attentissima propaganda atta a spingere l’Italia intera all’impegno verso questa nuova direzione produttiva. Così, dalla stampa del regime arrivano le prime comunicazioni: «La parola d’ordine in tempo di guerra è di utilizzare ogni energia, sfruttare ogni risorsa. Obbedendo a questa precisa direttiva è sorta l’iniziativa degli “orti di guerra” moltiplicando i quali non una zolla di terreno produttivo dovrà restare inutilizzata» (1941).
(Fonte: Roma Ieri Oggi)
Creare l’orto di guerra, per il sostentamento della propria famiglia, diventa presto un dovere per il cittadino italiano: un impegno civile verso la propria patria. E nell’estate del 1942 si assiste alle prime esibizioni di piazza. Da alcuni racconti, sappiamo che a Roma si era soliti trebbiare al Circo Massimo. A Villa Torlonia crescevano invece numerose le piantagioni di cavoli. Nei pressi di Montesacro, vicino al fiume Aniene, in quella zona malfamata che era la borgata del Fosso di Sant’Agnese, ancora viva negli anni ’70, gli orti erano parte integrante della quotidianità di chi vi abitava. Foto dell’epoca mostrano una fila ininterrotta di case e baracche lungo il fiume, utili ad ospitare gli ortisti che, ai tempi, oltre l’acqua del vicino Aniene si servivano, in mancanza di opere d’urbanizzazione primaria (luce e acqua), di acqua piovana o di pozzi improvvisati, realizzati in economia.
(Roma2Oggi)
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