La chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza fu edificata, per opera del Borromini, nel cortile del Palazzo della Sapienza, la più antica università di Roma. L’intento, da parte di papa Alessandro VI Borgia era quello di racchiudere, in un’unica sede, tutti i diversi ambiti di studio romani. I lavori iniziarono intorno alla fine del ‘400, ma solo nel ‘600 venne dato l’incarico, di occuparsi della cappella, all’architetto Francesco Borromini. L’artista si vide costretto a progettare un’intera chiesa, potendo sfruttare uno spazio davvero ridotto, e già impostato precedentemente da Giacomo Della Porta, nel rione Sant’Eustachio, perciò la struttura si sviluppa per la maggior parte in verticale. Lo stupefacente complesso verrà considerato, dai posteri, come una delle principali rappresentazioni barocche di Roma, e dell’Italia intera, rivoluzionando i canoni artistici, ed estetici, dell’epoca. Borromini disegnò un organismo a pianta centrale, con l’utilizzo di complesse geometrie, indici di un estro tutto suo, marchi di fabbrica, dell’autore, ancor oggi riconoscibili.
La struttura della chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza
L’architetto riuscì a fare dei vincoli di quel luogo, l’espressione maggiore della sua libertà creativa; riuscì a trarre, da ogni problema strutturale preesistente, un ventaglio di opportunità architettoniche e questa fu la sua più grande impresa. Così la forma quadrata del lotto, da impedimento, divenne punto di forza, per lo sviluppo di un involucro mistilineo figurante una stella a sei punte. L’idea di una vertiginosa verticalità, a simbolo di una trascendenza irraggiungibile, permise al Borromini di convergere la cupola in una meravigliosa lanterna, con coronamento a spirale. Le innovazioni stilistiche furono numerose e seguite da molteplici significati: la circolarità di rimando a dio, il profilo triangolare di rimando alla trinità e la presenza della lanterna di rimando al faro di Alessandria, come sinonimo di una cristianità, che si faceva luce per i fedeli. Mixando il gotico al classico, secondo uno schema organico, il Borromini riuscì a dar vita a dei riferimenti non solo originali, ma estremamente iconici. Una delle più curiose caratteristiche della chiesa fu, poi, la presenza di un piccolo insetto ispiratore, l’ape. Questo straordinario animaletto, era sempre stato al centro di attente analisi, fin dall’antichità. Signora di vita, di prosperità, di tempo e metamorfosi, l’ape era considerata capace di una delle virtù maggiori: riconoscere il bene comune.
Perché la chiesa fu ispirata dall’ape
Perciò, nella Chiesa di Sant’Ivo le api furono un emblema ripetuto, più e più volte. Stemma araldico della famiglia Barberini, esse vennero assunte come vere e proprie figure guida nella costruzione dell’edificio. Così, l’incrocio dei triangoli con i cerchi, formava la figura stilizzata di tre api, incarnazioni, a loro volta, di tre virtù: carità, prudenza e laboriosità. L’aspetto stesso della chiesa, allungato, formava il corpo di una grossa ape col pungiglione nella lanterna e il motivo, della presenza di questo animale, non risiedeva solo nella casata di provenienza – i Barberini – del committente, papa Urbano VIII. Dietro la presenza delle api, si nascondeva un universo di simbologie, ben noto ai tempi. Non a caso, già Virgilio, s’era accorto della grandezza di quel insetto dal corpo così minuto e, accusando i portatori della sua Opera, scriveva: “Ricordate, voi fate il miele oh api, ma sono altri che ne godono“. Questa era insomma la funzione dell’ape, accostata a quella della chiesa e, quindi, a quella del divino: l’espressione di una bontà gratuita, di una grazia senza meriti; l’esaltazione di una totale messa a servizio per l’altro, di un amore senza condizioni, di un dio che accoglie in egual misura i primi e gli ultimi.
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