Daniele De Rossi, la bandiera della Roma anche in panchina
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Personaggio mitico della nostra tradizione e anche maschera teatrale interpretato da Aldo Fabrizi, in uno dei musical romani più famosi in assoluto, Rugantino, Mastro Titta, er boja de Roma, passò alla storia come colui che fece andare all’altro mondo più di 500 persone nella sua vita, conosciamolo meglio!
Giovanni Battista Bugatti, in arte Mastro Titta è tutt’oggi uno dei personaggi più famosi della tradizione popolare romana. È passato alla storia per il suo mestiere, in realtà secondario, che era quello di essere il braccio armato della giustizia romana, papalina e anche franzosa. La sua attività principale infatti era quella di ombrellaio, mentre, quando richiesto, si occupava delle esecuzioni capitali a Roma ma anche fuori dalla capitale papalina. Le sue origini però non erano autoctone infatti il suo luogo di nascita era Senigallia, città marchigiana sulle sponde dell’Adriatico. Qui nacque il 6 marzo del 1779 per poi morire a Roma 90 anni dopo, nel 1869. Durante la sua attività di boja, che inizio il 17 agosto del 1796 e finì il 1864, mandò ar creatore, 514 persone, come riporta anche il suo taccuino, dove era solito annotare tutto.
Di Mastro Titta si sanno numerose informazioni, data la sua popolarità in quel di Roma; ad esempio si conosce l’indirizzo in cui abitava, Vicolo del Campanile 2, nel Rione di Borgo, a ridosso dell’odierna Città del Vaticano. Proprio da questa sua residenza sono nati due dei detti più famosi in tutta Roma: Boja nun passa ponte e di riflesso Boja passa ponte. Infatti data la sua sinistra popolarità, a Mastro Titta non era permesso superare la riva destra del Tevere dove abitava; il passaggio su Ponte Sant’Angelo infatti gli era permesso solo nelle giornate in cui era diretto a Piazza del Popolo, Campo de’ Fiori o in Piazza del Velabro, dove di solito era allestito il patibolo per procedere alla pena capitale. Da qui boja nun passa ponte, come a voler dire, boja statte ar posto tuo. Di riflesso boja passa ponte, suona maggiormente come un allarme, una minaccia come a dire er boja sta arrivà e mo so cazz…
Il racconto che ora vi lasciamo è un estratto tratto da una finta autobiografia di Mastro Titta, uscita sul finire dell’800, sull’onda della sua popolarità. Nonostante questo scritto non sia stato vergato dalla mano del boja, tutto è stato ripreso dal taccuino dove egli annotava tutto, possiamo considerare il racconto dunque abbastanza veritiero. Prima di lasciarvi al racconto dell’esecuzione vogliamo raccontarvi dell’usanza che era in uso nella Roma del tempo: i padri infatti portavano a vedere i propri figli le esecuzioni – che come vedremo erano anche abbastanza cruente – e terminate, gli davano ‘na pizza come monito di non finire mai su quel patibolo. Ecco dunque il racconto di quella prima esecuzione di Mastro Titta, il 22 marzo del 1796
Giunto sulla spianata ove doveva aver luogo l’esecuzione, Nicola Gentilucci fu fatto avvicinare ad un piccolo altare eretto di fronte alla forca e quivi recitò un’ultima preghiera. Poi, rialzatosi, lo condussi verso il patibolo a reni volte, perché non lo vedesse e fatto salire su una delle scale, mentre io ascendevo per un’altra vicinissima. Giunto alla richiesta altezza, passai intorno al collo del paziente due corde, già previamente attaccate alla forca, una più grossa e più lenta, detta la corda di soccorso, la quale doveva servire se mai s’avesse a rompere la più piccola, detta mortale, perché è questa che effettivamente strozza il delinquente. Il confessore e i confortatori intanto, saliti sulle due scale laterali, gli prodigavano le loro consolanti parole. Gli altri confortatori in ginocchio recitavano ad alta voce il Pater noster e l’Ave Maria e il Gentilucci rispondeva. Ma appena ebbe pronunziato l’ultimo Amen, con un colpo magistrale lo lanciai nel vuoto e gli saltai sulle spalle, strangolandolo perfettamente e facendo eseguire alla salma del paziente parecchie eleganti piroette. La folla restò ammirata dal contegno severo, coraggioso e forte di Nicola Gentilucci, non meno che della veramente straordinaria destrezza con cui avevo compiuto quella prima esecuzione. Staccato il cadavere, gli spiccai innanzitutto la testa dal busto e infilzata sulla punta d’una lancia la rizzai sulla sommità del patibolo. Quindi con un accetta gli spaccai il petto e l’addome, divisi il corpo in quattro parti, con franchezza e precisione, come avrebbe potuto fare il più esperto macellaio, li appesi in mostra intorno al patibolo, dando prova così di un sangue freddo veramente eccezionale e quale si richiedeva a un esecutore, perché le sue giustizie riuscissero per davvero esemplari“.
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