“Narciso, la fotografia allo specchio”, una mostra che riflette sul concetto del doppio
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“Se nun sai che dì, nun aprì bocca pe’ daje fiato”, quante volte lo avete sentito dire? Vi stupirà sapere che, nonostante oggi si definisca il romano “caciarone”, gli antichi romani amavano la riservatezza e il silenzio. A testimoniarlo, le Divalia: sapete di cosa si trattava?
Se c’è una cosa che abbiamo imparato, soprattutto in questo periodo dell’anno, è che i nostri antichi predecessori erano pieni di festività! Fra le tante, apparivano appunto le Divalia, festeggiate da calendario romano il 21 dicembre di ogni anno. In onore della dea Angerona, divinità del silenzio e dei piaceri, da cui l’altro nome come Angeronalia, tutti gli anni il pontefice compiva sacrifici nel tempio di Volupta (sembrerebbe presso i Fori imperiali), dea della gioia, con l’auspicio di allontanare, da ognuno, le sofferenze quotidiane e le preoccupazioni della vita. Ma a cosa era dovuta l’esistenza di queste cerimonie? Istituite a seguito di una malattia che pare colpì mortalmente gli abitanti della Capitale, la Angina di Ludwig, si rese necessario, per i romani, invocare l’aiuto di una dea, affinché la terribile sciagura smettesse di colpire la città. Ora, studi moderni descrivono questa particolare patologia come un’infezione della bocca, per questo motivo, probabilmente, i romani chiesero aiuto alla dea che più di tutte rappresentava la sopportazione privata dei propri dolori, per scacciarla. Gli antichi romani infatti non amavano la loquacità legata all’espressione delle sciagure personali; insomma, nun se buttavano giù, odiavano le lamentele e preferivano, ad esse, la forza d’animo e la tenacia.
Così, veniva data elevata importanza alla virtù della discrezione e della riservatezza, quando si trattava di sventure private e, durante il primo giorno di solstizio invernale, si festeggiava la dea imbavagliata o col dito in segno di far silenzio, colei che invitava a tenere dentro di sé il segreto della fine delle sofferenze e l’inizio della rinascita.
(Fonte: Wikipedia)
A questo proposito, la scelta del giorno, si rivelava tutt’altro che casuale: nel giorno in cui il sole cominciava a tramontare prima, quindi si avvicinava prima l’oscurità, il rito evocava la possibilità di portare dentro di sé la luce, senza rivelarla, nell’auspicio che ogni angoscia potesse essere spazzata via. In altre parole, le Divinalia rappresentavano l’occasione, per ogni cittadino, di trovare il sole, la forza e il calore dentro di sé; ricordavano ad ogni romano quanto fosse essenziale non affliggersi e rammaricarsi con continue lagne, ma rimboccarsi le maniche, tenere duro e attraversare la propria tristezza in vista di un più roseo futuro: un insegnamento valido tanto per loro, quanto per noi. Non è, infatti, ciò di cui abbiamo bisogno oggi?
Rileggendo questa festività attraverso i nostri occhi e la nostra attualità, ci rendiamo conto di quanto gli antichi romani si siano fatti, ancora una volta, portatori di un concetto non solo eterno, ma di nuovo al passo coi tempi. Costretti oggi a restrizioni, sacrifici, emergenze sanitarie e regole ferree, causa Covid, diventa fondamentale fare i conti con la resistenza e con l’importanza dei piccoli gesti. Il nuovo DPCM ha sfidato nuovamente le nostre abitudini e, ancor di più, le nostre coscienze, ma arriveranno tempi migliori, se saremo disposti, come i nostri antenati, non a dar sfoggio della nostra sofferenza, impegnandoci ognuno affinché passi. Festeggiare il Natale, quest’anno, sarà emotivamente più complicato per tutti, ma l’oscurità delle condizioni esterne non dovrà affliggerci. Al contrario, dovrà accendere una fiammella in ogni cuore, in grado di smuovere verso la risoluzione, ricordando che dopo ogni freddo inverno arriverà sempre una più calda primavera.
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