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Il 13 Gennaio si spegneva James Joyce, uno dei più importanti scrittori del XX secolo, ma sapete che durante la sua permanenza a Roma, il letterato odiò profondamente la città?
Capitale del mondo, Roma e dintorni ha sempre accolto una miriade di artisti, scrittori e letterati: fra questi, dopo la suggestiva esperienza romana dei fratelli Mann, anche James Joyce scelse di giungere nella Capitale. Tuttavia, rispetto alla meraviglia e allo stupore che ci si aspetterebbe, nei riguardi della nostra bella città il grande drammaturgo irlandese restò molto deluso: perché? Dall’agosto 1906 al marzo 1907, il padre della raccolta Gente di Dublino e dell’Ulisse, con la compagna Nora Barnacle e il figlio Giorgio piccolissimo, decise di spostarsi dall’amata Trieste a Roma. Soggiornò per soli sette mesi in una povera stanza di via Frattina, non lontano dall’ufficio, che era fra Largo Chigi e il Corso (nei pressi di dove avrebbe abitato anche Italo Calvino), e tanto bastò a fornirgli il materiale adeguato a definire quel breve trascorso romano come uno dei più deludenti della sua vita.
(Fonte: Fabrizio Falconi – blogger)
C’è da dire che, proprio quel periodo fu per Joyce tutto fuorché positivo: buio, depresso e desolato, l’animo dello scrittore non godeva in quegli anni di una condizione favorevole e in questo vortice di decadenza era scivolato anche l’imminente trasferimento, dettato a primo acchito da una motivazione del tutto professionale. La banca per la quale lavorava, la Nast Kolb & Schumacher, era infatti stata la prima delle ragioni di tale spostamento. Alla ricerca di un nuovo collaboratore che conoscesse bene le lingue, chi meglio di lui, ferrato non solo con l’inglese e l’italiano ma anche col francese e col tedesco, poteva rispondere all’annuncio?
A questa poi, se ne aggiungevano altre due, secondo uno dei maggiori anglisti viventi, Giorgio Melchiori: una di stampo piuttosto religioso, l’altra dal sapore prettamente culturale. Da un lato, v’era la curiosità dell’uomo di verificare quanto – e se – il cattolicesimo fosse paralizzante a Roma come nella sua città natale, Dublino; dall’altro, l’attrazione verso quel classicismo universalmente riconosciuto e deputato da tutti come appartenente alla Città Eterna.
(Fonte: Wikipedia)
E tuttavia, giunto nell’Urbe, non passò molto tempo da un suo primo commento a caldo, tutt’altro che benigno: Roma era per Joyce un uomo che si manteneva «col mostrare ai viaggiatori il cadavere di sua nonna». Roma non gli permise mai di ambientarsi davvero, nonostante le numerose capatine in biblioteche ed osterie, ma rappresentò per lo scrittore un vero e proprio fallimento: la sfortunata occasione di un disastroso smarrimento dal quale, della città, salvava solo l’acqua e l’aria. A Roma, Joyce non scrisse neanche l’ombra di una riga, piuttosto la solitudine, sfogata in un’inclinazione alcolica, durata tutto il soggiorno, lo costrinse a chiedere soldi al fratello minore Stanislaus, in numerose lettere accorate (in questo senso, gli unici scritti, nonché le più ricche testimonianze autobiografiche, di quel lasso temporale).
L’esperienza romana, per quanto breve, fu per il poeta modernista una parentesi infausta e deprimente, sebbene questa particolare aura non gli impedì, comunque, di ideare, almeno a livello embrionale, uno dei suoi più grandi capolavori, l’Ulysses (1922).
(Fonte: Cultura – Biografieonline)
Così, anni dopo, ogni suo sentimento a riguardo, sarà espresso, neanche troppo velatamente, all’interno dei tre atti del suo unico dramma teatrale, Esuli, del 1917, uno scritto di gelosia e tradimenti. I protagonisti, Richard e Bertha, per una trama liberamente ispirata a I morti, il racconto conclusivo di Gente di Dublino (1914), descriveranno Roma come un lungo esilio a cavallo fra un’incapacità reale di far propria la città e una più profonda tristezza esistenziale, indice di un esilio che, in fin dei conti, si svelerà – anche – come stato mentale.
(Fonte: Fanpage)
Segno di quella stessa sofferenza, di quel disorientamento, che pervase il soggiorno romano di Joyce, Esuli permise probabilmente allo scrittore di realizzare il trauma di quei giorni, di prenderne atto. E, evidente espressione autobiografica del rapporto fra lui e sua moglie, si rivelò come autentico mezzo catartico: uno strumento in grado di superare, nero su bianco, il periodo romano e nostalgico che fu costretto a vivere.
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