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Qual è la vera ricetta della pajata? In che modo questo condimento entra a far parte della tradizione culinaria di Roma?
Precisiamo subito due cose. Innanzitutto, la pajata non c’entra niente né con la paglia, né col fieno, sebbene al suono possa sembrare così. A questo, poi, va aggiunto che, nonostante possa ormai mangiarsi ovunque, i padri della sua preparazione sono per eccellenza i romani. Ma di cosa si tratta? Il termine pajata si riferisce alla parte più alta (duodeno e digiuno) degli intestini del vitello da latte e, più raramente, del manzo giovane. Al suo interno si trova il chimo, ovvero una sostanza semidigerita dalla consistenza cremosa, composta di latte. Ora, tagliato in spezzoni, coi capi annodati o legati con un filo a formare ciambelle, questo ingrediente è molto celebre nella cucina romana. Tanto che, negli anni, è diventato per i romani un condimento tipico per un particolare tipo di pasta: i rigatoni.
“Maccherò m’hai provocato e io te distruggo: io me te magno” recitava Alberto Sordi, in Un americano a Roma.
Certo, i suoi erano spaghetti, ma comunque i maccheroni di cui parla (e che non si vedono) sono proprio i rigatoni di cui stiamo parlando, e tanto basta. Perché quelli vi serviranno, per la ricetta dei veri rigatoni con la pagliata.
Mettete in una padella del grasso, preferibilmente quello di prosciutto, oppure dello strutto o dell’olio d’oliva, se non ne avete, con uno spicchio d’aglio (che poi potrete togliere), del sedano, della cipolla e del peperoncino. Aggiungete la pagliata a pezzi, con sale e pepe q.b., e sfumate col vino bianco. A piacimento, potete insaporire con un po’ di odori (come il rosmarino). Infine, versate la salsa al pomodoro, o la polpa passata al setaccio, tenendo presente che la pagliata, già prima dell’aggiunta del pomodoro, avrà creato da sé un po’ di salsa, quindi: regolatevi.
Una volta cotto il sugo, versateci i rigatoni, che intanto avrete cotto e scolato, poi una bella spolverata di pecorino romano (nun fate i tirchi!) et voilà: siete pronti per godervi il paradiso!
Sempre Alberto Sordi, stavolta nel Marchese del Grillo, nella celebre scena dell’osteria, definisce così la pajata, all’ospite francese che la stava mangiando: “Questa è merda! È proprio merda. Merda de vitella: so’ budella” – ma quanto è buona?
Vediamo, allora, come la pajata diventa un piatto della tradizione romana.
La storia di questo condimento, un po’ come il “quinto quarto” con cui venivano pagati gli operai, è legata indissolubilmente al popolo di Roma e al concetto del “nun se butta via gnente” che spesso accompagna i cosiddetti “piatti poveri“.
I tagli meno pregiati e le interiora del bovino erano infatti vendute, un tempo, a du’ lire ai popolani della Roma papalina, ché solo quelle si potevano permettere. In particolare, verso la fine del ‘700 è a Testaccio che si concentra la tradizione della pajata, a fianco ai vaccinari o scortichini de ‘na vorta, cioè coloro che lavoravano la carne di bovino. Insomma: laddove, a fine Ottocento, sarebbe nato il mattatoio.
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