"Voi fatte amà? Fatte sospirà" un infallibile consiglio d'amore
I modi di dire sono spesso delle guide turistiche ma a volte sono anche in grado di dare dei consigli sulla vita e sull’amore. Uno di questi è “Voi fatte amà? Fatte sospirà”. […]
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Sono stati descritti, in pellicole, libri, serie tv – e chi più ne ha, più ne metta – come impavidi guerrieri, eroi insensibili di fronte al nemico e uomini forgiati di coraggio e audacia. Ma tante sono le fonti storiche che riportano a terra l’immagine dei legionari romani, restituendogli sentimenti e paure umane…
Si è parlato spesso dei legionari romani come di uomini impavidi, pieni di coraggio e senza paura, spesso insigniti di quel sentimento di furor, d’origine divina -addirittura magica – di cui ogni soldato romano esser protagonista, quasi si trattasse di un Sacro Graal dei guerrieri. La massima aspirazione, per chi ambiva a diventare eroe di guerra, e ad essere degno, al rientro in patria, di ogni ammirazione.
(Fonte: Quora)
Siamo cresciuti con quest’idea, se non altro perché portata in scena da numerose pellicole, serie tv o documentari. Eppure, a ben guardare, qualcosa stride al solo pensiero si tratti di esseri umani in carne ed ossa, in tutto o quasi simili a noi. E, ad avvalorare quest’ipotesi, arrivano numerose le fonti storiche. Testi e studi che da anni cercano di restituire, all’ideale e all’immaginario legato alla figura del legionario, la sua vera natura, semplicemente la sua natura di essere umano. Dunque, di un uomo sottoposto, come qualsiasi altro, all’instabilità delle proprie emozioni, ai traumi, allo stress, allo scorrere della vita e di tutte le sue condizioni.
Nello specifico, alcuni studi riportano veri e propri momenti di panico fra i legionari, teorizzando, anche per loro, ciò che oggi definiremmo con la dicitura di “Disturbo post traumatico da Stress“. In altre parole, una condizione patologica, spesso piuttosto invalidante, dominata da violenti flashback, nervosismo, agitazione, notti insonni, aggressività immotivata e tendenza alla rimozione di ogni tipologia di ricordo traumatizzante.
(Fonte: pinterest)
A dirlo, due scuole di pensiero: l’universalistica, secondo cui, a dispetto del tempo e dei momenti storici, la natura dell’essere umano resterebbe la stessa e tenderebbe, quindi, agli stessi disturbi post-traumatici; la relativistica, secondo la quale il contesto storico, la cultura dominante e la semantica degli eventi (in questo caso, la comprensione di come gli antichi intendessero la guerra) sarebbero invece particolarmente rilevanti ai fini dello sviluppo di determinate malattie. Ora, prendendo per buona questa seconda corrente teorica, e la sua conseguente concezione, esisterebbero precisi parametri che porterebbero all’insorgenza di questo disturbo.
Primo fra tutti, la percezione che i guerrieri stessi avevano della guerra e l’incidenza di quest’evento all’interno della loro esistenza. In sostanza, la comprensione di ciò che la battaglia rappresentava per i romani, quale fosse la loro idea. Su questo piano, va sottolineato quanto il mondo romano differisse dal nostro. Se la modernità munisce i soldati di strumentazioni tecnologiche, in qualche modo anestetizzanti (apparecchi estremamente sofisticati, capaci di indurre ad una sorta di apatia, per così dire); in passato, a dominare erano gli scontri diretti sul campo, le lotte corpo a corpo, il sangue e le terribili urla. Insomma, tutte situazioni particolarmente conturbanti, rispetto alle nostre (comunque traumatiche – n.b.= l’hollywoodiano American Sniper).
(Fonte: Focus.it)
E, tuttavia, la questione si può subito ribaltare, facendo riferimento ad alcuni usi e costumi della società romana. Sebbene non particolarmente razzisti, i romani potevano definirsi infatti molto classisti. Questo significa che, considerando le popolazioni germaniche alla stregua di belve, animali da poco conto, i soldati potevano contare su un senso di colpa nettamente inferiore a ciò che proveremmo oggi nella stessa situazione, limitando quindi la possibile insorgenza di stress post-traumatici.
Ultimo criterio, la personalità del soldato stesso, la sua psicologia e il suo modo di intendere la violenza. Sappiamo, infatti, che nessuna persona pacifica poteva di fatto aspirare ad entrare tra le fila dell’esercito romano; dovendosi mostrare, al contrario, piuttosto incline alla guerra e senza scrupoli, di fronte all’avversario. Così che, anche quest’assenza di empatia, questa disposizione innata all’imperturbabilità, poteva far da scudo a possibili sviluppi traumatici successivi. Si potrebbe quindi supporre che, sostanzialmente, la maggior parte dei legionari romani non soffrisse di particolari patologie dovute alla guerra.
(Fonte: Quora)
Restano però ferme, infine, alcune testimonianze storiche. Come il medico romano Celso, che racconta l’episodio di un paziente soldato malato di una “pazzia senza febbre“; Plutarco che ci parla di una dipendenza alcolica, nata sul finire dei suoi anni, per il generale Caio Mario; e l’iscrizione sulla lapide del Centurione Ulpio Optato, sulla quale, oltre i suoi meriti, si fa riferimento a numerosi e quotidiani attacchi d’ira.
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