“Fa bene e scordate, fa male e penzace”, una lezione di vita tutta romana
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L’esercito romano era una macchina da guerra, come i soldati di cui si componeva. Ma quale era la caratteristica più importante dei guerrieri romani? E cosa si intendeva con il termine “furor”?
A partire dagli anni della Repubblica, l’esercito romano cominciò a diventare gradualmente sempre più forte, sino a confermarsi come una delle più incredibili potenze militari della storia. A spaventare gli altri popoli, non era solo l’organizzazione militare dei soldati via terra, comunque piuttosto rilevante, ma quella via mare, utile a raggiungere città sempre più lontane. Le guerre, insomma, cominciarono a diventare sempre più numerose, prima nei soli territori circostanti, quelli più vicini, poi nelle zone oltremare.
(Fonte: Storie romane)
Sostanzialmente, le ragioni di cotanta forza potevano ruotare intorno a tre caratteristiche principali: il complesso assetto e ordinamento dei soldati; la loro assoluta e precisa disciplina; e, non ultimo per importanza, il loro pesantissimo addestramento. Secondo la tradizione, fu Romolo il primo ad istituire la Legione romana e, tuttavia, il numero di questi comparti, nel corso del tempo, andò via via aumentando (basti pensare alle conquiste e alle espansioni di cui Roma si fece promotrice), fino ad arrivare alle 37 Legioni di Cesare. E, poco tempo dopo la sua brutale morte, le 60 del primo Imperatore di Roma Ottaviano, meglio noto come Augusto!
Ora, un ruolo di assoluta preminenza, tra le qualità tipo dei soldati romani, poteva individuarsi in quello che, tra le fila del popolo, veniva definito il sentimento di furor. I guerrieri dell’antica Roma, in altre parole, oltre che di un faticoso addestramento, dovevano essere dotati di una particolare proprietà. Di una forza interiore, a dirla tutta: una predisposizione, in grado di fargli superare la paura e di fargli sopportare il dolore.
(Fonte: Il primato nazionale)
Senza alcuna origine fisica specifica o individuabile (almeno in quegli anni), il furor non era frutto di un insegnamento; era una disposizione, anzi una pre-disposizione: non aveva nulla a che vedere con l’apprendimento di determinate capacità o abilità, e certo non poteva tramandarsi, essendo al contrario disponibile solo se fornita, in anticipo o direttamente sul campo di battaglia, da l’intervento di una divinità o di un mago. In altre parole, il furor corrispondeva a ciò che oggi avremmo chiamato raptus o furia improvvisa, un urgente sfogo, spesso violento, senza alcuna regola di fondo. Avete presente quando, per parlare della reazione irruente, e non prevista, di una persona, diciamo che “j’è partito l’embolo”? Ecco, quello era il furor degli antichi.
Una dote che, in battaglia, si rivelava importantissima, perché era dal furor che dipendeva la carica e la tenacia di un soldato. Solo forgiato nel coraggio e nel furor, infatti, quest’ultimo poteva districarsi tra spade, lance e sangue, avanzando senza timore tra i nemici armati. Solo con questa peculiare emozione, nulla avrebbe potuto spaventarlo.
(Fonte: Romano Impero)
E, infine, solo in preda a questo stato d’intensità, quasi inconsapevole (per questo, associato al divino e al magico e, probabilmente, soltanto opera di una dose molto elevata di adrenalina), quell’uomo avrebbe potuto sconfiggere qualsiasi avversario. Dunque, tornare vincitore in patria ed essere acclamato “eroe di guerra“. Accezione, questa, tutt’altro che scontata, all’interno del panorama culturale e linguistico romano, poiché collegata ad uno speciale tipo d’amore: quello che il soldato provava verso nient’altro se non Roma.
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