“Tra Sacro e Profano” la pittura di Ulisse Scintu a Palazzo Ruspoli
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Furono i romani a chiamarlo per la prima volta “mare nostrum”. Si trattava del mar Mediterraneo, ma sapete perché lo chiamavano così? E perché era così importante?
All’inizio designava soltanto il bacino del Mar Tirreno e continuò a farlo almeno fino al 30 a.C, fino alla fine delle guerre puniche, combattute contro Cartagine, e alla conquista di Sicilia, Sardegna e Corsica. L’espressione mare nostrum, tuttavia, si andò ampliando subito dopo. Nel momento in cui, il dominio romano, cominciò ad espandersi verso la Penisola iberica e l’Egitto. È in quel preciso istante che, padroni dell’intero vicinato, i romani cominciarono ad utilizzare questa definizione per riferirsi a tutto il Mediterraneo. A dirla tutta, chiamandolo anche Mare Interno, dal latino Mare Internum, per la sua peculiarità di essere “circoscritto“. Il nome di Mediterraneum Mare fu attestata, per la prima volta, infatti, soltanto dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, nel 476 d.C, anno in cui Odoacre depose l’ultimo imperatore romano, Romolo Augusto. Ma cosa rappresentava per Roma questo mare? A primo acchito è facile rispondere: si trattava di una dichiarazione di potere da parte dei romani che, grazie alla loro flotta, erano riusciti nell’intento di governare qualsiasi provincia vi s’affacciasse, arrivando alla massima estensione dell’Impero nel 117 d.C, con Traiano. Ad una seconda lettura, però, quest’impressionante ampliamento, in direzione del Mar Mediterraneo, si faceva portavoce di numerosissime implicazioni, prima di tutto economiche.
La chiave di quella prosperità romana, tanto osannata da tutti, si poteva desumere, infatti, dal connubio flotta e commercio. La stessa sopravvivenza di Roma si reggeva su questo precario equilibrio, per lo più dettato dai flussi di merci verso – e da – la città. All’epoca di Nerone, l’arrivo del grano da Alessandria, solitamente nel mese di giugno, ad esempio, era acclamato con grande entusiasmo dall’intero popolo romano. Questo prodotto rappresentava, infatti, per la città, una grossa fonte di ricchezza e di sostentamento, utile a nutrire le famiglie per almeno quattro mesi, come scriveva lo storico romano Flavio Giuseppe. Basti pensare al suo utilizzo, per gli impasti delle più disparate tipologie di pane. Sotto Augusto, secondo una fonte anonima del IV secolo d.C., la quantità di grano esportata dall’Egitto, ogni anno, a Roma contava circa 140.000 tonnellate di materia prima. Per l’occasione, le navi commerciali (e di qui tutta la loro estrema importanza) erano accompagnate sempre da imbarcazioni da guerra e da naves tobellariae, atte ad annunciare l’attesissimo arrivo della flotta. Tanta era l’agitazione, come testimoniato anche da Seneca: la folla si riuniva al porto di Pozzuoli aspettando con ansia il sopraggiungere delle navi mercantili. Che non trasportavano solo prodotti gastronomici (non ultimi vino, olio, garum, una speciale salsa di pesce utilizzata in cucina e spezie), ma anche gemme preziose, interi monumenti (vedi gli obelischi) o materiali, come ferro, rame o marmo, necessari alla costruzione di diversi edifici.
Eppure, sebbene grandi soldati, ingegneri o pionieri delle più importanti invenzioni dell’epoca, non si può certo affermare che i romani, all’inizio, fossero altrettanto abili nell’arte della navigazione. Tutt’altro che lupi di mare, a dire la verità, sopratutto nei primi anni, usufruirono delle capacità di alcuni skipper stranieri, provenienti per lo più dalla Grecia. La prima flotta, o almeno la prima degna di questo nome, fu organizzata solo intorno al 260 a.C., e in soli 60 giorni! E solo una volta raggiunta la supremazia sul mare nostrum, essa cominciò ad occuparsi di tutte le province, assicurandone la difesa e la tranquillità. La flotta navale difese Roma dai suoi nemici per secoli. Ora, in relazione alla velocità e al loro scopo, le navi militari romane potevano essere suddivise in più tipologie. Si avevano allora le naves praetoriae (ammiraglie); le naves longae (imbarcazioni da guerra velocissime); le naves liburnicae (probabilmente le più veloci); le naves actuariae (navi più da vedetta e da trasporto truppe); le naves speculatoriae (utilizzate per spiare le mosse del nemico); e le naves tabellariae (le navi messaggere, utili a comunicare con la terra ferma).
A capeggiare tutte le navi, i miles classiarii (soldati della marina) e i loro marinai, divisi fra remiges, addetti ai remi; nautae, specializzati nelle manovre; e mesonautae, a lavoro con le pompe di sentina, c’era quello che i romani chiamavano dux, ovvero un generale che, nell’accezione di capo della marina da guerra, assumeva anche il nome di praefectus classis o centurio classiarius (da dopo la riforma augustea); mentre, a governare ogni singola imbarcazione c’era il magister navis. Ogni uomo della flotta romana proveniva, ovviamente, da ore estenuanti di addestramento, dedite alla formazione di competenza ed efficenza. Sopratutto, molto particolari nelle dinamiche. Reclutati localmente, fra classi povere, schiavi o prigionieri, gli equipaggi, dotati del Montefortino (un elmo d’origine celtica), erano sottoposti, infatti, a durissimi allenamenti, di cui spesso erano protagoniste delle panche simili, nelle fattezze, a ciò che li avrebbe attesi: le navi e i loro combattimenti!
Il Capo supremo della flotta militare era il dux (generale dell’esercito), che in qualità di comandante della marina da guerra era denominato praefectus classis e veniva nominato dall’imperatore. Il capitano di una singola nave era il navarchus o praefectus navis o magister navis. Con la riforma augustea dell’esercito romano, il comandante veniva chiamato centurio classiarius, equivalente al centurione delle forze terrestri.
Alle sue dipendenze aveva cento soldati specializzati al combattimento in mare chiamati miles classiarii.
Il miles classiarius indossava una tunica di colore bruno-ferroso o blu mare ed era munito di armatura o corazza, elmo e persino gambali. Gli scontri erano sanguinosi e i militi dovevano impiegare armi anche molto pesanti. Nel periodo augusteo furono dotati di un elmo di provenienza celtica chiamato Montefortino che si prestava a difendersi da colpi dall’alto. Gli equipaggi venivano reclutati localmente e prelevati dalle classi più povere ma potevano anche includere reclute provenienti da stati alleati, prigionieri di guerra e schiavi. Gli equipaggi militari venivano addestrati nei porti di dislocazione al combattimento navale anche se, secondo la dottrina romana, erano considerati più fanti di marina che marinai. I miles classiarii nei documenti e monumenti funebri, ricevevano lo stesso stipendio degli ausiliari di fanteria ed erano analogamente soggetti alla legge militare romana. Gli scontri avvenivano a seguito degli arrembaggi con le modalità delle truppe di terra.
I classiarii convivevano con i veri marinai, ovvero con i remiges,addetti ai remi, con i nautae, marinai specializzati addetti alle vele ed alle manovre, e con i mesonautae addetti alle pompe di sentina. L’addestramento era ovviamente un requisito cruciale per l’efficienza della flotta. Di fatto, una caratteristica che si è tramandata nel tempo. La sua efficienza durò fino al collasso dell’Impero quando il mare nostrum diventò di nessuno. Ma questa è un’altra storia.
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